Non passa mai troppo tempo senza che il filo che lega il Corno d’Africa alla penisola araba, se sfilacciato, venga riannodato. Ciò soprattutto se vi sono altre interferenze esterne da allontanare.
Ampia eco ha avuto l’arrivo di aiuti sanitari turchi a Mogadiscio e nel Basso Scebelli e poi nel Somaliland – sebbene il Ministro della Salute lamenti non vi siano strumenti urgenti quali ventilatori, né il personale addestrato a farli funzionare. Si registra allora in questa settimana un beau geste dall’Arabia Saudita, che ha cancellato il divieto a importare bestiame – maggiore voce dell’export somalo: vale circa il 40% del PIL di Mogadiscio – imposto due anni orsono mentre aumentavano invece i flussi dal Corno. L’annuncio del competente Ministero saudita per l’Ambiente, le Risorse Idriche e l’Agricoltura disegna il possibile arrivo di 600.000 ovini e 100.000 cammelli somali entro trenta giorni, dopo la necessaria quarantena sanitaria.
La mossa favorisce il Presidente Farmajo e inverte le tensioni sorte con la crisi del 2017 tra Riad, Abu Dhabi e Doha.
Mogadiscio ha tentato di mantenersi neutrale, scontentando proprio i sauditi. Le crisi regionali sono però in via di trasformazione dato il concatenarsi di recessione da pandemia e caduta del prezzo del greggio e anche in Somalia la prima leva da azionare è quella economica. Le sole mancate rimesse costeranno nel 2020 1,5 miliardi di dollari e ciò rende inoltre più minacciose le emergenze alimentari. Offrire il proprio sostegno e ritrovare un alleato è vitale però anche per i sauditi. A gennaio essi avevano manifestato un nuovo interesse per l’Africa, prima di intraprendere tornanti molto difficili della vita industriale e politica nazionale. Sottotono l’attività Shabaab contro Forze o civili collegati all’AMISOM, si ripetono ipotesi di ripiego ugandese dalla Missione.