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Il silenzio dell’Eritrea sul conflitto del Tigrai

La strategia del silenzio adottata dall’Eritrea non solo non è pagante ma rischia di esporre il paese a rischi ben maggiori. La comunità internazionale non cederà nella sua azione sul Tigrai, e il rischio di nuove e più incisive accuse è solo questione di tempo.

Nessuna comunicazione ufficiale è stata diramata dall’Eritrea all’indomani dell’annuncio il 23 marzo scorso del premier etiopico Abiy Ahmed circa l’ammissione della presenza delle truppe eritree nella regione del Tigrai.

Anche i due comunicati divulgati dal Ministero dell’Informazione di Asmara in occasione della visita del premier di Addis Abeba il 25 e 26 marzo non contengono alcuna menzione dell’ammissione etiopica circa la partecipazione delle forze eritree nel Tigrai.

L’unico vago riferimento alla questione è ravvisabile nel paragrafo conclusivo del comunicato del 26 marzo del Ministero dell’Informazione, quando viene ricordato che all’ordine del giorno delle discussioni tra Abiy Ahmed e Isaias Afewerki c’è stata anche la questione della “campagna di disinformazione” che ha interessato i due paesi.

La posizione di Asmara, quindi, è stata quella evitare nel modo più assoluto la questione, insistere con l’accusa di una campagna di diffamazione ai danni dell’Eritrea e dell’Etiopia e lasciare che fosse il premier Abiy Ahmed a sostenere il peso della comunicazione dei fatti alla comunità internazionale.

Verosimilmente, la narrativa di una presenza esclusivamente limitata alla zona di confine e giustificata dal timore di attacchi da parte del TPLF è stata coordinata congiuntamente, sebbene con ogni probabilità nella consapevolezza della fragilità della versione sostenuta.

Il comunicato diramato dal premier etiopico al suo rientro, peraltro, conferma ulteriormente la presenza eritrea, parlando di accordo per il ritiro delle truppe e trasferimento del controllo del confine a quelle federali etiopiche.

La scelta da parte di Asmara di mantenere il silenzio circa il coinvolgimento nel Tigrai appare purtroppo come una necessaria conseguenza dopo aver negato per mesi ogni addebito da parte della stampa e della politica internazionale. L’aver così platealmente sostenuto la sussistenza di una sorta di complotto, ordito attraverso la diffusione di una campagna di disinformazione, rende oggi difficile per Isaias Afewerki tornare sui propri passi e ammettere il ruolo delle proprie forze armate nella regione.

La scelta del silenzio e il riferimento alla sussistenza di una campagna di “disinformazione” sui fatti sono tuttavia un grave rischio in questa fase, dove al contrario sarebbe necessario per l’Eritrea intervenire urgentemente soprattutto per contenere quello che sarà – con assoluta certezza – il prossimo fronte degli attacchi al paese da parte della comunità internazionale.

Adesso che Abiy Ahmed, con una prima parziale ammissione, ha ufficializzato la presenza delle forze eritree in Tigrai, l’Eritrea sarà senza dubbio accusata di aver commesso violenze, stupri e saccheggi, di essere intervenuta in profondità nella regione del Tigrai e di aver innescato una crisi di ampie proporzioni regionali.

La posizione assunta dal premier etiopico Abiy Ahmed, che ha ammesso la veridicità delle violenze nella regione, annunciando l’avvio di indagini al fine di assicurare alla giustizia i colpevoli, per quanto poco credibile sul piano complessivo, appare certamente allo stato attuale come la migliore strategia per arginare le crescenti accuse che nelle prossime settimane e mesi verranno rivolte al paese.

L’Eritrea avrebbe dovuto – e forse ancora potrebbe essere in tempo per farlo – assumere una posizione simile a quella dell’Etiopia, prendere le distanze da qualsiasi sospetto di aver fomentato violenze e saccheggi e sostenere di conseguenza una specifica narrativa a sostegno della propria politica regionale.

Gli sviluppi di questa crisi sembrano iniziare a delineare un cupo quadro entro il quale dovranno muoversi le diplomazie di Addis Abeba e di Asmara, incalzate da una pressione della comunità internazionale che non sembra in alcun modo avviata a diminuire né a cedere sulla richiesta di chiarezza circa le responsabilità delle violenze determinatesi negli ultimi cinque mesi nella regione del Tigrai.

Nicola Pedde
Nicola Pedde
Nicola Pedde è il Direttore dell’Institute for Global Studies. Dopo gli studi in Giurisprudenza ha conseguito un Master in International Relations e un PhD in Geografia Economica, concentrando il suo interesse professionale sull’evoluzione delle dinamiche politiche e di sicurezza dei paesi del Golfo Persico.

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