Con una mossa non sorprendente, il Governo del Kenya ha rispolverato (23 marzo) l’annosa richiesta di smantellare i campi profughi di Dadaab e Kakuma nell’est e nel nord del Paese. Vere e proprie città, nelle quali vivono rispettivamente circa 220.000 e 196.000 persone, rifugiati somali per la guerra civile dell’inizio degli Anni Novanta – e la siccità dell’inizio degli Anni Duemila – e sudanesi del Sud dopo il conflitto del 2014.
Dadaab è di fatto la quarta città del Kenya. L’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che gestisce i campi con altre organizzazioni come il Programma Alimentare Mondiale, o Medici Senza Frontiere) ha tempo fino alla prima metà di aprile per individuare le formule del completo rimpatrio dei rifugiati.
Nairobi torna così sull’intesa con UNHCR e Somalia siglata nel 2013 e volta a facilitare lo sgombero dei rifugiati; un primo annuncio di immediata chiusura fu espresso nel 2016: eventi entrambi legati alle connessioni tra Dadaab e alcuni dei terroristi Al Shabaab che avevano colpito il centro commerciale Westgate a Nairobi (almeno 63 le vittime nel settembre 2013) e l’Università di Garissa (147 vittime ad aprile 2015).
Non vi sono ora eventi così luttuosi, eppure la perentorietà è la stessa. In assenza degli sviluppi attesi il Governo di Nairobi ha prospettato l’accompagnamento coatto oltrefrontiera dei profughi. Nel 2017, l’Alta Corte keniota ritenne incostituzionali simili decisioni, che violavano il principio di non respingimento.
Alcuni dei residenti adulti non hanno mai vissuto al di fuori dei campi. In patria non troverebbero una situazione davvero migliorata: sebbene non più di guerra civile, le violenze caratterizzano ancora la quotidianità, anche a Mogadiscio. Qui, il 25 marzo, tiri di mortaio indiscriminati sono stati lanciati in direzione di Camp Halane, quartier generale della Missione AMISOM posto nei pressi dell’aeroporto internazionale. 3 civili sono rimasti uccisi e 5 feriti, in un attacco rivendicato dagli Al Shabaab; non vi sono danni alle strutture.
Non vi è parimenti alcun progresso verso le elezioni e anche gli ultimi colloqui sono stati annullati risolvendosi con un nulla di fatto. Sono caduti nel vuoto sia l’invito del Segretario Generale dell’ONU Guterres, sia quello dell’Alto Rappresentante dell’UE Borrel, sia anche le pressioni del Ministero degli Esteri turco a risolvere l’impasse. Degno di nota è che il Ministro della Difesa dell’Oltregiuba Janan abbia abbandonato Madobe per riparare a Mogadiscio il 24 marzo; ciò indica che le Autorità federali più che negoziare con le controparti regionali intendono indebolirle, agendo sulle loro alleanze mutevoli e non esitando a usare le strutture di sicurezza a tal fine. Il filo del colloquio politico ad ogni modo non è interrotto.
Il 22 marzo, a Mogadiscio era anche giunto il Ministro della Difesa italiano Guerini, come tappa di un tour istituzionale nel Corno d’Africa che ha toccato anche Gibuti. Reiterato il sostegno alle Autorità somale cooperando nella sicurezza, nello sviluppo economico e umanitario e nella ricostruzione dello Stato, parte di un impegno rinnovato oltre il Mediterraneo anche nel Sahel e nel Golfo di Guinea. Il 23 marzo, una delegazione del Ministero degli Esteri somalo ha invece incontrato omologhi egiziani al Cairo, in un rapporto bilaterale che in ultimo acquista maggiore spessore.
Fonti locali evidenziano in questo quadro come oltre un centinaio di parlamentari e imprenditori somali abbia di recente acquisito la cittadinanza turca, favorito da norme ora meno restrittive. Stante l’irrigidimento delle relazioni con il Kenya e con gli Emirati buen retiro tradizionale per l’elite somala, la Turchia è diventata una alternativa per chi sia in cerca di opportunità di investimento, migliori servizi sanitari e istruzione.
