Senza particolari clamori mediatici, il presidente di Gibuti Ismail Omar Guelleh ha avviato il proprio quinto mandato presidenziale, dopo la più che scontata vittoria alle elezioni dello scorso 9 aprile.
A dispetto delle congratulazioni ufficiali formulate dai capi di stato ad Ismail Omar Guelleh, una sempre maggiore schiera di giornalisti, accademici ed esperti d’area ha commentato criticamente la sua rielezione, ritenendola espressione di una forma sempre più accentuata di autoritarismo e controllo politico, che impedisce qualsiasi forma di evoluzione del paese in chiave democratica.
Il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato un’intervista l’8 aprile con lo studioso Roukiya Mohamed Osman, che ha definito le elezioni di Gibuti come “una mascherata tanto surreale quanto assurda”, dove il tribalismo è stato istituito come modalità di governo.
La miscela di elementi che permette ad Ismail Omar Guelleh di governare ininterrottamente dal 1999 (quando a sua volta venne scelto da suo zio Hassan Gouled Aptidon per succedergli alla guida del paese) è composta da un accentuato autoritarismo politico a sfondo tribale, da una diffusa corruzione e da una avventuristica politica di sviluppo economico.
Il primo elemento ha favorito il consolidamento del potere del clan degli Issa, e in particolar modo del sub clan dei Mamaasan cui il presidente appartiene. Ogni forma di dissenso è stata sistematicamente repressa, spesso con l’uso della forza, come nel caso delle massicce proteste del 2020. Il secondo elemento rappresenta il principale strumento del nepotismo di governo, che è stato alla base delle proteste del 2020 e che vede il presidente direttamente coinvolto. Il terzo, ma non meno importante elemento, è quello dello sviluppo economico costruito intorno alle strutture portuali e alle basi militari ospitate nel piccolo paese. Mentre da un lato questa fase iniziale di crescita ha garantito flussi economici costanti che hanno offerto la parvenza di uno sviluppo economico, il contraltare di questa politica è rappresentato da un debito contratto con la Cina che ormai rappresenta il 70% del PIL locale.
Gibuti gioca in tal modo le proprie carte politiche sfruttando appieno la propria collocazione geografica, incassando il silenzioso assenso della comunità internazionale – e specialmente di quei paesi che coltivano interessi in loco – senza che alcuna critica venga rivolta al presidente e alla evidente centralità autoritaria del suo potere.