Secondo quanto annunciato dal portavoce del primo ministro etiopico, Billene Seyoum, l’Eritrea avrebbe avviato il ritiro delle proprie unità militari dalla regione del Tigrai, dando in tal modo seguito a quanto concordato tra il primo ministro Abiy Ahmed e il presidente Isayas Afewerki nel corso del loro ultimo incontro.
La presenza delle truppe eritree in Etiopia, nella regione del Tigrai, era stata ripetutamente negata all’indomani dello scoppio del conflitto, nel novembre del 2020, e poi ufficialmente ammessa – solo dall’Etiopia – lo scorso mese marzo, con l’impegno ad un immediato ritiro.
Dopo mesi di intense polemiche internazionali in merito alle violenze perpetrate nel corso del conflitto, e contestualmente all’irrogazione di sanzioni da parte della comunità internazionale nei confronti tanto dell’Etiopia quanto dell’Eritrea, il 3 giugno l’ufficio del primo ministro ha nuovamente annunciato il ritiro.
Ulteriore conferma in merito al ritiro delle forze eritree è giunta il 5 giugno, nel corso di un seminario promosso dal ministero degli Esteri etiopico, dove il ministro della Difesa Kenea Yadetta ha confermato l’avvio delle procedure di ripiegamento, senzza tuttavia fornire ulteriori dettagli.
Nessuna conferma o commento sulla questione è stato espresso dal governo eritreo, mentre gli Stati Uniti e l’Unione Europea restano scettici in merito all’effettivo ripiegamento delle forze militari di Asmara dal Tigrai, soprattutto alla luce del moltiplicarsi di denunce relative al loro ulteriore dispiegamento in altre regioni del paese. Per quanto le informazioni siano di difficile verifica allo stato attuale, e considerando che le denunce sono state espresse nella maggior parte dei casi da forze politiche di dubbia imparzialità, la questione dei militari eritrei all’interno del territorio etiopico continua a restare un nodo importante della stabilità nazionale, con il rischio di evolvere in una sempre più marcata azione di condanna da parte della comunità internazionale.
La politica del silenzio dell’Eritrea sulla questione del proprio impegno militare in Tigrai e l’ammissione ad intermittenza da parte dell’Etiopia del ruolo eritreo e del coinvolgimento nelle violenze denunciate nella regione, hanno determinato una generale perdita di fiducia da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea nei confronti tanto del governo di Asmara quanto di quello di Addis Abeba, provocando reazioni sul piano diplomatico, come il le restrizioni dei visti per i funzionari dei due paesi accusati di aver commesso crimini nella regione del Tigrai, o ancora sanzioni connesse all’assistenza economica e umanitaria, dove l’Unione europea ha sospeso l’erogazione dei propri fondi di sostegno all’Etiopia.
Al netto della veridicità dell’annuncio del 3 giugno scorso da parte del portavoce del primo ministro etiopico, inoltre, la vera incognita connessa al possibile ritiro delle forze militari eritree dl paese è oggi connessa all’effettiva portata potenziale di tale ripiegamento.
Non è chiaro, infatti, quale sia l’effettiva dimensione degli accordi intrapresi tra il primo ministro Abiy Ahmed e il presidente Isayas Afewerki in merito al passaggio di sovranità nelle molte aree contese lungo il confine tra i due paesi, e, quindi, quanta parte soprattutto del territorio un tempo facente parte del Tigrai passerebbe sotto controllo e sovranità eritrea.
Oltre alla cittadina contesa di Badme, che ha rappresentato per decenni il principale casus belli tra i due paesi, sono numerose le aree di confine reclamate tanto dall’Eritrea quanto dall’Etiopia e non sono disponibili allo stato attuale indicazioni di alcun genere su quali e quante di queste siano state oggetto di specifici accordi bilaterali.
La mancanza di trasparenza da parte tanto dell’Etiopia quanto dell’Eritrea, in un faccenda che entrambi i paesi continuano ostinatamente a considerare un problema interno e non una crisi internazionale, ha ormai determinato un generale clima di sfiducia sul piano dei rapporti con la comunità e le organizzazioni internazionali, rischiando di determinare ulteriori e più significative difficoltà per entrambi i paesi.