Il 30 giugno migliaia di sudanesi sono scesi in piazza per protestare contro il pacchetto di riforme economiche stabilite dal Fondo Monetario Internazionale come condizione per concedere al Sudan l’erogazione di un prestito finanziario di 2,5 miliardi di dollari.
Le condizioni richieste includono pesanti tagli ai sussidi sino ad oggi assicurati sui carburanti, rischiando di penalizzare fortemente la capacità dei piccoli commercianti e di far lievitare i prezzi dei beni di prima necessità, determinando l’ira di ampi strati della popolazione, scesa in piazza protestando veementemente contro quella che considerano un’imposizione straniera sul paese.
La manifestazione, simbolicamente tenutasi nella data in cui, nel 2019, la protesta popolare riuscì a far cadere il regime di Omar al-Bashir, è stata ampiamente partecipata ed ha visto scandire slogan pesanti contro le autorità del governo di transizione.
A nulla sono valsi i tentativi del premier Hamdok di calmare i manifestanti attraverso i canali televisivi nazionali, e la polizia è successivamente intervenuta impiegando i lacrimogeni e fermando alcune centinaia di persone.
Secondo le autorità sudanesi, che cercano di fornire risposte ad una società ormai allo stremo, sarebbero stati arrestati circa 200 ex funzionari dell’ex partito di governo NCP, accusati di aver pianificato e organizzato in modo strumentale le proteste del 30 giugno allo scopo di minare la stabilità del governo e gli sforzi per ristabilire un equilibrio economico.
Se l’annuncio della riduzione del debito del Sudan è una buona notizia – anzi, ottima, transitando progressivamente dal 163% del PIL al 14% – le condizioni imposte per la riduzione e l’erogazione dei crediti finanziari da parte del FMI sono pesanti per la società sudanese, ormai assuefatta alle promesse e interessata da una crisi economica apparentemente senza soluzione.