A poche ore dalla riconquista di Macallè da parte delle forze militari del TPLF, il portavoce Gatachew Reda ha rilasciato un’intervista alla stampa internazionale nella quale viene ventilata l’ipotesi di una continuità del conflitto nei confronti dell’Eritrea, sostenendo che “se sarà necessario entrare in Eritrea, lo faremo”.
Per quanto appaia poco probabile una capacità da parte del TPLF di spingersi in profondità in territorio eritreo, la minaccia non è destituita di fondamento e deve essere analizzata con precisione nella sua sostanza.
Il primo fattore da considerare nell’equazione di questo complesso conflitto è oggi quello del profondo risentimento della società tigrina tanto verso le autorità federali e i loro alleati Amhara, quanto e soprattutto verso l’Eritrea.
Se gli eccessi del TPLF nella sua sfida al governo federale (attraverso l’indizione di elezioni autonome e il tentativo di neutralizzare le forze armate federali sul proprio territorio) avevano giustificato la legittima reazione di Addis Abeba lo scorso novembre, l’azione condotta nella sua regione ribelle era apparsa da subito spropositata e destinata al fallimento.
Il principale errore del governo federale è stato certamente quello di scatenare sul Tigrai il risentimento, la violenza e le ambizioni territoriali tanto degli Amhara quanto dell’Eritrea, attraverso una gestione del conflitto da subito caratterizzata dalla violenza, dal mancato rispetto dei diritti umani e dal più brutale saccheggio.
In particolar modo, mentre gli Amhara si sono impossessati di un’ampia area del territorio tigrino occidentale, di fatto privandolo del suo sbocco al Sudan, l’Eritrea aveva preso il controllo non solo delle zone di confine oggetto di disputa (come quella di Badme, già casus belli nel 1997) ma anche di ampi tratti della regione settentrionale, entrando in città come Axum, Scirè e Adigrat.
Nel periodo dell’occupazione del Tigrai da parte delle forze federali e dell’Eritrea sono stati commessi – per stessa ammissione delle forze federali – gravissimi episodi di violenza sulla popolazione civile, sono stati commessi saccheggi indiscriminati e sono state distrutte numerose infrastrutture pubbliche.
Il TPLF è stato considerato dai suoi nemici come una minaccia esistenziale, e di conseguenza gestito sotto il profilo di condotta delle operazioni militari, con il chiaro intento di eradicare la possibilità della “minaccia tigrina” una volte per tutte.
La capacità di risposta del TPLF e la resilienza delle sue unità militari – peraltro costrette alla lotta ad oltranza dalla stessa strategia degli attaccanti, che non lasciava alternative – sono state tuttavia fortemente sottovalutate, con rovesci sul piano militare che hanno progressivamente portato alla disfatta.
Allo stato attuale, il Tigrai è di fatto un’entità autonoma e indipendente, solo formalmente parte dell’Etiopia, e molte sono le variabili che riguardano il suo futuro.
In primo luogo è di vitale importanza riconquistare il controllo delle regioni occidentali occupate dagli Amhara, per assicurare ad un’entità territoriale oggi completamente circondata da elementi ostili uno sbocco territoriale esterno verso il Sudan.
In subordine c’è la questione della presenza delle forze armate eritree sul territorio del Tigrai, che il TPLF non intende tollerare, e che con ogni probabilità porterà ad una continuazione delle violenze nell’ottica del pieno ripristino del controllo dei confini e delle arterie di comunicazione.
Tra le sette condizioni poste dal TPLF ad Addis Abeba per l’accettazione della tregua, inoltre, c’è anche la richiesta di una commissione di inchiesta che abbia capacità di inquisire tanto il premier Aby Ahmed quanto il presidente eritreo Isaias Afewerki. Questa richiesta sembra sottintendere alla volontà di non accettare alcun compromesso con i due uomini politici, che sul piano pratico potrebbe tradursi nel tentativo di sostenere qualsiasi azione atta a favorirne l’incriminazione da parte della giustizia internazionale (meno probabile) o la deposizione ad opera delle opposizione politiche.
Che il Tigrai possa diventare il rifugio e la base di numerose formazioni di opposizione è quindi oggi una concreta possibilità, così come quella entrare nell’orbita di paesi ostili al governo federale etiopico, come l’Egitto e il Sudan, o dell’Eritrea.
Con certezza, invece, la rivalità tra il TPLF e l’Eritrea non è destinata a sopirsi, potendo evolvere nell’immediato futuro entro le due sole opzioni, entrambe conflittuali, dello scontro aperto o dell’ingerenza occulta.