L’8 luglio, a Port Sudan, alcune unità dell’esercito e delle milizie paramilitari avrebbe aperti il fuoco contro alcuni civili nel quartiere di Dar El Naim, provocando la morte di un giovane ragazzo e il ferimento di alcune decine di persone.
Non è stata chiarita la dinamica dei fatti ma secondo fonti della popolazione locale si sarebbe trattato di un’operazione gestita dalle Forze di Supporto Rapido (FSR), una delle molte milizie che compongono l’incerto equilibrio dell’apparato di sicurezza del Sudan.
L’episodio segue quello del 1° luglio verificatosi nella cittadina di Omdurman, quando le forze armate regolari hanno aperto il fuoco contro alcuni sospetti, provocando la morte di cinque persone.
I due episodi hanno riacceso in Sudan le polemiche connesse all’autonomia delle forze paramilitari, agli interessi che ruotano intorno alla loro gestione e alla necessità da parte del governo di forzarne l’integrazione all’interno delle forze armate nazionali.
Alla fine di giugno, forti tensioni si sarebbero registrate nei rapporti tra il comandante Forze di Supporto Rapido (FSR), Mohamad Hamdan Daglo, e il primo ministro Abdalla Hamdok, dopo che il primo ha nuovamente rifiutato di integrare le proprie unità all’interno dell’esercito regolare sudanese.
Daglo difende l’autonomia delle FSR in base al decreto del Parlamento che le ha istituite, e che lui interpreta come espressione di un’autonomia sancita espressamente all’atto della costituzione dell’unità.
Di avviso contrario il primo ministro Abdalla Hamdok, secondo il quale il processo di stabilizzazione del paese non può che prevedere l’integrazione delle FSR – e di tutte le altre milizie autonome – all’interno di una forza militare nazionale e unitaria, non soggetta agli interessi dei comandanti dei singoli reparti.
Il vero problema del processo di integrazione delle milizie nell’ambito di una struttura unitaria nazionale è quello degli interessi personali dei singoli comandanti, che devono necessariamente essere gestiti attraverso una sintesi politica che garantisca un evidente tornaconto ad ognuno di loro. Un processo lungo e complesso, quindi, che non sembra possibile poter affrontare – come vorrebbe il primo ministro – attraverso le normali prerogative delle istituzioni.