Incassato il successo delle elezioni politiche, sebbene caratterizzate da numerose polemiche, per il governo del premier Abiy Ahmed si apre adesso la complessa fase della gestione della stabilità nazionale.
Il conflitto nel Tigrai è tutt’altro che concluso e, anzi, rischia di espandersi in direzione della regione Amhara e dell’Eritrea, costringendo il governo federale ad assumere un ruolo che potrebbe portare ad una nuova e più intensa fase di conflittualità.
Il biasimo della comunità internazionale sulla crisi del Tigrai ha determinato l’insorgere di un forte sentimento anti-americano e – in misura minore – anti-europeo in seno alle forze che sostengono il primo ministro, e in particolar modo quelle del Partito della Prosperità. Una strategia alimentata intenzionalmente dal vertice politico, con finalità esclusivamente interne di crescita del consenso sociale, che rischia tuttavia di avere gravi ripercussioni sulla capacità dell’Etiopia di gestire alcuni importanti dossier di politica internazionale, come ad esempio quello connesso alla diga del GERD.
Hanno fatto le spese di questa nuova narrativa del confronto innanzitutto alcune ONG internazionali, che, operando nella regione del Tigrai, sono state accusate da esponenti del governo di Addis Abeba di aver sostenuto ed aiutato il TPLF. Esplicito in tal senso il portavoce della task force dell’emergenza in Tigrai, Redwan Hussein, che il 15 luglio ha accusato alcune organizzazioni umanitarie – senza menzionarle – di essere impegnate per “armare il gruppo terroristico del TPLF”.
Sul piano nazionale, il nuovo governo dovrà affrontare con urgenza il problema sempre più marcato delle istanze promosse in seno al sistema del federalismo etnico, che il governo vorrebbe contrastare attraverso un progressivo accentramento delle funzioni all’interno del sistema istituzionale federale. In assenza di un immediato impegno in direzione di un effettivo dialogo di riconciliazione nazionale, tuttavia, il rischio per il governo etiopico è quello di dover gestire con sempre maggiore intensità le rivendicazioni delle singole comunità etniche del paese. Queste, infatti, vedono nel rafforzamento delle autonomie regionali e nel consolidamento delle prerogative etniche l’unico reale strumento per fronteggiare quella che percepiscono come la minaccia di un sistema federale centrale e verticista gestito da Addis Abeba.
Le elezioni, in tal modo, che avrebbero dovuto idealmente rappresentare il punto di arrivo della complessa strategia di Abiy Ahmed per ridisegnare gli equilibri di potere del paese, rischiano di trasformarsi in un elemento marginale – e in un certo qual modo imbarazzante – su cui avviare una ricostruzione complessiva della stabilità e dell’equilibrio dell’Etiopia, con il concomitante rischio di una espansione del conflitto dal Tigrai alle regioni vicine.