Il 23 luglio è stato dato per disperso lungo in confine tra Etiopia e Sudan il capitano dell’esercito sudanese Bahaa El-Din Youssef, ufficialmente impegnato nel verificare gli spostamenti delle milizie amhara, ritenute responsabili del sequestro di tre bambini sudanesi.
Le tensioni nell’area dell’al-Fashaga sono in tal modo tornate ad assumere proporzioni gravissime, comportando la totale chiusura dei confini a partire dal giorno successivo, quando le autorità sudanesi hanno dispiegato numerose unità delle forze armate in prossimità del valico di frontiera tra i due paesi, dichiarandolo chiuso al transito.
La crisi di confine con l’Etiopia porta nuovamente in evidenza le profonde divergenze all’interno delle autorità militari e civili del governo di transizione, assestate su posizioni sempre più distanti ed apparentemente inconciliabili.
A lanciare l’allarme è stato la scorsa settimana il primo ministro Abdalla Hamdok, quando ha reiterato la richiesta di una riforma del settore della difesa che porti, con urgenza, all’unificazione delle forze armate sotto il controllo delle istituzioni centrali di Khartoum, limitando la capacità d’azione autonoma delle milizie e soprattutto delle Forze di Supporto Rapido, ormai del tutto autonome nella gestione della propria agenda politica e securitaria.
Il primo ministro Hamdok ha lanciato un appello alle forze politiche affinché sostengano le istituzioni transitorie nel loro sforzo di riunire le milizie sotto il controllo centrale dell’Esercito federale, ma anche per rafforzare il sistema istituzionale attraverso una coesione che permetta linearità d’intenti e univocità di strategie sul piano della politica domestica ed estera del Sudan.
Appare in tal modo sempre più evidente il divario tra le autorità civili e militari del governo di transizione, all’interno dell’alleanza politica che ha visto forze molto diverse e distanti tra loro stringere un patto nell’ottica di una transizione che appare adesso sempre meno facile da perseguire. Non meno problematica è la convivenza anche tra le sole forze politiche civili, il Fronte Rivoluzionario, le Forze della Libertà e del Cambiamento e il Partito Nazionale della Umma del Sudan, dove una crescente polarizzazione ha portato a divergenze crescenti, favorendo un rafforzamento dell’autorità e del potere dei militari.
Anche in seno al settore della difesa, tuttavia, è palpabile la tensione che sempre più spesso divide e contrappone le forze regolari dell’esercito federale dall’intelligence e al tempo stesso dalle molte milizie lasciate in eredità dal regime di Omar al-Bashir, che operano in totale autonomia e indipendenza compromettendo sistematicamente la fragile legittimità delle istituzioni di transizione.
Grava sulla già precaria situazione politica la gravissima crisi economica del paese, per far fronte alla quale il governo è impegnato in una difficile negoziazione con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), per favorire la cancellazione del debito e per ottenere un credito finanziario di 2,5 miliardi di dollari che, sebbene non sufficienti a risolvere i problemi del Sudan, costituiscono allo stato attuale una imprescindibile risorsa su cui tentare la costruzione di una strategia di emergenza per sbloccare la crisi e il malcontento popolare.
Ciò che il primo ministro Abdalla Hamdok denuncia oggi senza mezzi termini è il tentativo da parte di alcuni esponenti del settore della difesa di ostacolare il processo di riforme avviato dal governo, ponendo ostacoli soprattutto al processo di stabilizzazione richiesto dal FMI per la cancellazione del debito e l’erogazione dei crediti finanziari, al fine di screditare le autorità civili del governo di transizione e favorire una svolta militare autoritaria.
Non sembra essere il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio di Sovranità, l’oggetto delle accuse di Hamdok, quanto piuttosto il suo vice, il generale Mohammad Handan Dagalo.
L’emergenza primaria delle istituzioni è quella di arrestare il processo di crisi economica del paese, nel momento in cui l’inflazione ha raggiunto il valore record del 412,75% nello scorso mese di giugno, con un poderoso incremento rispetto al già insostenibile valore del 378,79% registrato nel precedente mese di maggio.
Il “Club di Parigi”, organizzazione informale che include le organizzazioni finanziarie di 22 paesi nell’impegno a rinegoziare il debito pubblico dei paesi più poveri, ha accordato al Sudan la possibilità di cancellare 14,1 miliardi di dollari del proprio debito e di rimodulare i termini di rimborso di altri 9,5 miliardi di dollari, apprezzando il processo di riforme attuato dal governo di transizione sotto la guida dei tecnici coordinati dal primo ministro Hamdok.
Anche il Fondo Monetario Internazionale ha espresso al Sudan la propria soddisfazione per aver raggiunto i risultati richiesti per la cancellazione del debito in base ai parametri relativi ai paesi maggiormente indebitati (HIPC), grazie alle coraggiose riforme attuate dall’esecutivo di Abdalla Hamdok, tra le quali la cancellazione di numerosi sussidi.
Questi risultati, tuttavia, sono messi costantemente a repentaglio dall’instabilità politica del paese in conseguenza soprattutto del ruolo dell’eterogeneo apparato di sicurezza, apparentemente incapace – o non desideroso – di voler ripristinare una struttura centrale di comando che assorba e regoli l’attività delle molte milizie indipendenti che operano oggi nel Sudan, e in particolar modo delle temute Forze di Supporto Rapido (RSF), retaggio della violenza etnica instaurata ai tempi del precedente regime guidato da Omar al-Bashir.
Tra le riforme che vengono chieste dal FMI al governo del Sudan, per il futuro, ci sono poi quelle relative alla privatizzazione di numerose società controllate dallo Stato, e in modo particolare dall’apparato militare e dell’intelligence, che non intendono tuttavia perdere il controllo di lucrosi segmenti dell’economia.
È su questo fronte, quindi, che si consuma principalmente la natura dello scontro in atto tra le componenti civili del governo di transizione e quelle militari, nella gestione di una strategia di riforme che comporterebbe il forte ridimensionamento della capacità dei vertici militari e dell’intelligence di poter disporre di ingenti risorse finanziarie.
All’interno dell’apparato di sicurezza, quindi, si assiste ad un palese tentativo di rallentare il processo di integrazione delle forze militari federali con le milizie, sfruttando soprattutto il ruolo e il potenziale delle temute Forze di Supporto Rapido per mantenere in equilibro costantemente precario la sicurezza del paese.
Artefice di questa politica, secondo molti, sarebbe il generale Mohammad Handan Dagalo, conosciuto come Hemeti, attualmente vice presidente del Consiglio di Sovranità e già comandante delle Forze di Supporto Rapido dal 2013 al 2019. Hemeti ritenuto responsabile delle violenze etniche nel Darfur e delle violenze verificatesi durante la rivoluzione del 2019, è sospettato di essere il gestore di interessi economici illeciti di ampia portata, che includono il traffico delle materie prime e dei metalli preziosi.
È certamente sua la responsabilità della mancata integrazione delle Forze di Supporto Rapido nell’ambito delle forze federali sudanesi, adducendo il pretesto di una loro istituzione come forza indipendente in virtù della volontà di un parlamento eletto, mantenendo in tal modo la capacità operativa delle RSF a vantaggio dei propri interessi personali.