Il 25 ottobre un colpo di Stato promosso dai militari ha esautorato la componente civile del Consiglio Sovrano di Transizione, mettendo fine all’esperimento politico avviato solo due anni fa in seguito alla caduta del regime di Omar al-Bashir.

Le tensioni che da giorni avevano caratterizzato le relazioni tra l’ala militare e quella civile del governo, dopo mesi di crescenti divergenze, unitamente ad un tentativo di colpo di stato da parte di alcune unità ribelli dell’esercito e al blocco di Port Sudan, avevano lasciato presagire nei giorni scorsi come la tensione politica avesse ormai raggiunto livelli allarmanti.

È stato lo stesso generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, a dare notizia dell’azione delle forze armate, adducendo gravi motivi di ordine politico ed economico che richiedono l’adozione di un governo tecnico capace di condurre il paese alle elezioni previste per il 2023.

Ha rifiutato di sostenere il colpo di Stato il primo ministro Abdalla Hamdok, che è stato quindi posto agli arresti domiciliari, così come numerosi ministri civili del governo, mentre è stato chiuso l’aeroporto di Khartoum e drasticamente ridotta la capacità della rete internet. Sarebbero stati arrestati anche il ministro dell’industria Ibrahim al Sheikh, il ministro dell’informazione Hamza Balou, il consigliere per la comunicazione e la stampa del primo ministro Faisal Mohammed Saleh, il portavoce del Consiglio Sovrano di Transizione Mohammed al Fiky Suliman e il governatore di Khartoum Ayman Khalaid.

Hanno infine sospeso le trasmissioni numerose emittenti televisive e radiofoniche del paese, mentre il ministero dell’informazione è stato occupato dai militari e il ministro arrestato, dopo aver incitato i sudanesi a scendere nelle strade e protestare per la condotta delle forze armate.

Numerose manifestazioni pubbliche sono state organizzate spontaneamente soprattutto nella capitale, dove sono state erette barricate e appiccati incendi, mentre l’Esercito avrebbe aperto il fuoco in più occasioni provocando la morte di almeno 7 civili e il ferimento di circa 150. A riferire le notizie è il Comitato Medico Sudanese.

Le radici del colpo di Stato

Il golpe del 25 ottobre affonda le sue radici nel perdurare delle difficoltà politiche sorte all’indomani della caduta del dittatore Omar al-Bashir, destituito dalle forze armate nell’aprile del 2019.

I vertici dell’esercito compresero allora come apparisse insostenibile la continuità del regime di al-Bashir, sebbene volendo difendere le proprie prerogative e quelle delle molte milizie costituite dall’ex dittatore soprattutto per sostenere la politica genocida nei confronti delle tribù Zaghawa, Fur, Masalit e delle altre comunità etnicamente africane, soprattutto nella regione del Darfur.

La grave crisi economica del paese determinata dalle sanzioni e dall’isolamento internazionale, inoltre, imponeva l’adozione di soluzioni immediate e di un mutamento politico visibile. L’occasione si presentò nei primi mesi del 2019, quando, spinti dalla crisi economica, migliaia di sudanesi si riversarono nelle strade chiedendo riforme e la fine del regime di Omar al-Bashir.

Le forze armate colsero quindi l’occasione, destituendo l’ex dittatore e determinando una svolta politica di durata triennale guidata da un governo misto civile-militare che, attraverso un accordo costituzionale, avrebbe dovuto guidare il paese verso libere elezioni per la scelta di un governo interamente a guida civile entro il 2023.

La svolta politica, apprezzata dalla comunità internazionale e soprattutto dagli Stati Uniti, suggellata dalla costituzione del Consiglio Sovrano di Transizione e poi dal riconoscimento di Israele, permise al Sudan di essere rimosso dalle liste del terrorismo internazionale, di sbloccare i programmi di cancellazione del debito pubblico e di avviare le procedure per l’erogazione dei finanziamenti da parte del Fondo Monetario Internazionale.

Sin dall’inizio, tuttavia, apparve chiaramente come la coesistenza delle componenti civili e militari all’interno del Consiglio Sovrano di Transizione sarebbe stata problematica, soprattutto per l’insistente richiesta da parte delle autorità civili di sciogliere le milizie paramilitari ed assorbirle all’interno delle forze armate.

Queste ultime, espressione nella maggior parte dei casi del precedente regime e delle forze di ispirazione islamista, hanno al contrario resistito sistematicamente alla possibilità di una integrazione nell’esercito sudanese, nell’intento di difendere i consistenti interessi economici e politici connessi alla propria indipendenza.

Particolarmente ambiguo è stato nella stessa fase il comportamento delle forze armate regolari, che da una parte ha costantemente rassicurato le autorità civili dell’imminenza del processo di scioglimento ed assorbimento delle milizie, mentre dall’altra non lo ha mai realmente avviato, nell’ottica di non alterare i delicati equilibri del potere politico, economico e militare con le forze più vicine all’ex regime di al-Bashir.

Sebbene destituito dal potere e agli arresti, questi ha continuato ad esercitare una capacità di influenza su ampi segmenti degli apparati di sicurezza e delle formazioni politiche di estrazione islamista, riuscendo a tessere un intricato intreccio di relazioni cha ha poi sistematicamente impiegato a proprio vantaggio.

L’accettazione da parte del Consiglio Sovrano di Transizione della richiesta di estradizione dell’ex dittatore per essere processato dinanzi alla Corte Penale Internazionale di Giustizia, tuttavia, ha alterato la tenuta del fragile equilibrio politico sudanese, determinando l’accelerazione di quel processo di crisi che ha poi condotto alla frattura tra le unità civili e militari del governo.

Chi comanda il Sudan?

Il generale Abdel Fattah al-Burhan, nel dare annuncio della presa del potere da parte dei militari e dell’arresto di alcune figure di vertice del governo civile, ha ribadito l’impegno delle autorità per il rispetto delle tempistiche elettorali finalizzate all’organizzazione di libere elezioni entro il 2023.

Il Consiglio Sovrano di Transizione è stato tuttavia sciolto, e lo stato di emergenza proclamato, lasciando poche speranze per una effettiva evoluzione democratica del Sudan.

Con l’arresto del primo ministro Abdalla Hamdok e di molti suoi ministri, e il contestuale scioglimento del Consiglio, quindi, l’esercizio del potere politico passa ufficialmente nelle sole mani del vertice militare delle forze armate sudanesi.

Al vertice della struttura militare siede il generale Abdel Fattah al-Burhan, che rappresenta idealmente il volto di questa svolta politica e che ha assunto formalmente i poteri di guida politica connessi a questa fase di transizione.

La struttura militare del Sudan, tuttavia, è complessa, articolata e alquanto eterogenea nella composizione degli interessi, rendendo inefficace una semplice analisi gerarchica delle prerogative della catena di comando.

In particolar modo si presenta molto complessa la gestione dei rapporti tra le forze armate regolari e le diverse milizie indipendenti, create dall’ex dittatore Omar al-Bashir come strumento per la repressione delle comunità etniche africane del sud del paese. La capacità militare di alcune delle milizie e la loro indipendenza, infatti, viene guardata con crescente sospetto dalle stesse forze armate, che, tuttavia, non dispongono della necessaria capacità per integrarle all’interno del proprio dispositivo e per ricondurle nell’alveo della tradizionale catena di comando militare sudanese. Per questa ragione, quindi, pur essendo portatrici di interessi diversi tra loro, le forze armate e le milizie mantengono un assetto collaborativo in funzione del reciproco vantaggio che ne deriva.

Il rapporto con le autorità civili del Consiglio Sovrano di Transizione è stato invece sempre problematico, ma è stato sino ad oggi rispettato nei termini dell’accordo costituzionale in quanto garantiva la stabilità sociale e la legittimazione del ruolo delle forze armate.

La continua richiesta di scioglimento delle milizie e il pervicace tentativo delle formazioni civili di governo di assumere un ruolo preminente nella gestione della politica, tuttavia, ha progressivamente alterato la capacità di sopravvivenza del difficile equilibrio tra le due diverse entità di governo.

Particolarmente evidente, ancor oggi, risulta il peso delle formazioni politiche islamiste e il sostegno di queste all’ex dittatore Omar al-Bashir, che, sebbene agli arresti, continua ad esercitare un certo grado di influenza su alcuni reparti delle forze armate e su alcune componenti della politica. Non un ruolo predominante, almeno allo stato attuale, ma certamente capace di generare il necessario consenso per determinare significativi mutamenti politici, come quello dell’ultimo colpo di Stato.

Ciò che ha favorito in questa fase più recente il consolidamento delle forze armate e delle milizie, quindi, è stata la comune percezione di una minaccia connessa al tentativo di emancipazione e supremazia da parte delle componenti civili del Consiglio Sovrano di Transizione, nell’ottica di un ulteriore rafforzamento attraverso la legittimazione derivante dal voto del 2023.

Sebbene ribadendo pubblicamente l’intenzione di voler sostenere la transizione verso uno stato civile e libere elezioni, quindi, le forze armate affermano che l’accordo del 2019 sul governo di transizione ha determinato una crisi capace di minare la stabilità del Sudan, imponendo l’intervento dell’esercito a garanzia della sicurezza collettiva.

Per quanto il generale al-Burhan appaia come l’elemento di vertice del sistema militare, tuttavia, diverse sono le componenti all’interno dell’apparato della sicurezza ad esercitare un ruolo autonomo e non subordinato. Tra queste certamente spiccano le milizie Janjaweed, comandate dal generale Mohamed “Hemeti” Dagalo, sinistro personaggio della guerra in Darfur, che oggi emergono nel confuso clima post-golpe in Sudan mostrando appieno il proprio ruolo nella caduta del Consiglio Sovrano di Transizione.

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