Migliaia di manifestanti si sono riversati il 31 ottobre nelle strade delle principali città del Sudan per protestare contro il colpo di stato della settimana scorsa condotto dalle forze militari del paese. In larga maggioranza giovani, i manifestanti hanno chiesto il ripristino del processo di transizione democratica gestito dal governo civile, chiedendo il rilascio delle autorità civili poste agli arresti in seguito al colpo di stato.

Le proteste più intense si sono registrate nella capitale, Khartoum, dove i manifestanti hanno eretto barricate e dato fuoco a pneumatici, sfidando le forze di polizia e l’esercito, che ha reagito solo in sporadiche occasioni, provocando tre morti e un centinaio di feriti.

La comunità internazionale appare compatta nel condannare l’azione dei militari sudanesi. Il Fondo Monetario Internazionale ha sospeso gli aiuti finanziari e il processo di riduzione del debito estero, mentre l’Unione Africana ha sospeso il Sudan. Anche l’ONU ha condannato il colpo di stato e il 29 ottobre il Consiglio di Sicurezza ha adottato all’unanimità una risoluzione nella quale si chiede il ripristino immediato di un governo di transizione diretto da autorità civili, esprimendo al contempo viva preoccupazione per l’azione dei militari a danno del processo di transizione. La risoluzione è stata firmata anche dalla Russia e dalla Cina, sebbene soprattutto la Russia abbia insistito affinché la risoluzione fosse meno dura rispetto alle richieste occidentali, e soprattutto non contenesse i termini “condanna” e “colpo di Stato”.

Il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha anche esortato i militari sudanesi a mostrare moderazione con i manifestanti che si riversano nelle strade di Khartoum e soprattutto a non provocare vittime. A dispetto del testo adottato dal Consiglio di Sicurezza, il segretario generale Guterres ha apertamente menzionato la sua condanna per il colpo di stato e chiesto l’immediato ripristino del governo di transizione a guida civile.

Le pressioni internazionali sulle autorità militari del Sudan sembrano aver sortito qualche effetto. L’ex primo ministro Abdalla Hamdok ha infatti potuto incontrare – sebbene agli arresti domiciliari – gli ambasciatori degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Norvegia, ipotizzando la possibilità di un ripristino del governo civile.

Il giorno successivo, il 4 novembre, il portavoce delle forze armate, Taher Abouhaga, ha confermato che la nomina di un governo civile sarebbe ormai imminente, dimostrando in tal modo come le proteste della società sudanese e la ferma condanna della comunità internazionale – unitamente alla sospensione di ogni sostegno sul piano finanziario – abbiano sortito un concreto effetto nel convincere le autorità militari della necessità di un compromesso.

Nessuna indicazione è trapelata circa la possibile fisionomia del nuovo governo o dei suoi componenti, né tantomeno è chiaro quale ruolo i militari intendano assumere nell’ambito della formazione di un nuovo esecutivo. Sembra improbabile, allo stato attuale, che l’ex premier Abdallah Hamdok possa essere rispristinato nelle sue funzioni, facendosi strada l’ipotesi di un governo tecnico, svincolato dalla politica e dai partiti.

È terminata invece la protesta dei rappresentanti del Beja Congress a Port Sudan, con la rimozione dei blocchi stradali e la ripresa del transito dei veicoli che trasportano le merci verso la capitale. In molti sospettano che la protesta e i disagi causati dalle proteste siano stati organizzati occultamente dai militari, allo scopo di determinare le condizioni di instabilità nell’ambito delle quali è stato promosso il colpo di stato dello scorso 25 ottobre.

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