Continuano le manifestazioni popolari in Sudan per protestare contro il colpo di stato dello scorso 25 ottobre, incrementando per numero e intensità soprattutto nella capitale Khartoum.
Si intensifica allo stesso tempo anche la risposta da parte delle forze di polizia e dell’Esercito, che il 7 ottobre ha disperso una manifestazione nel quartiere popolare di Bourri, nella capitale, utilizzando gas lacrimogeni e facendo intervenire le unità anti-sommossa.
Sono circa 15 i morti provocati dai disordini successivi al colpo di stato, mentre gli ospedali hanno registrato oltre 300 feriti, in larga misura colpiti da armi da fuoco impiegate dalle forze di sicurezza per disperdere le manifestazioni.
Le autorità militari di governo sono state in tal modo sottoposte ad una enorme pressione sociale interna, accompagnata ad una sempre più intensa attività diplomatica internazionale, che ha visto recarsi nel paese e nella regione gli inviati dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, oltre a quelli di numerose organizzazioni internazionali.
Il generale Abdel Fattah al-Burhan ha in tal modo avviato una intensa mediazione con le componenti civili del deposto governo, e in particolar modo con l’ex primo ministro Abdalla Hamdok, che si è detto disponibile alla formazione di un nuovo governo di transizione, a condizione di poter selezionare le figure politiche di vertice da nominare nel nuovo esecutivo.
Si tratta di una mediazione non facile, resa ancor più complessa dalle divergenze interne allo stesso apparato della sicurezza, dove il generale al-Burhan rappresenta paradossalmente l’ala più moderata e orientata al dialogo del complesso sistema militare sudanese.
L’ala più radicale dell’apparato militare – e di fatto quella su cui pesa maggiormente la responsabilità del golpe del 25 ottobre scorso – è quella rappresentata dalle milizie delle Forze di Supporto Rapido, guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (meglio noto come Hemetti).
Le Forze di Supporto Rapido (RSF) vennero costituite dal deposto dittatore Omar al-Bashir con lo specifico scopo di gestire la sanguinosa guerra nel Darfur, dove si resero responsabili di crimini che sono valsi poi il deferimento dello stesso Omar al-Bashir dinanzi alla Corte Penale Internazionale.
Le RSF sono riuscite, ad oggi, ad uscire pressoché indenni dalle molteplici accuse di crimini contro i diritti umani che le hanno riguardate, sebbene siano ben note in Sudan le loro responsabilità.
In virtù di questa tetra reputazione, la componente civile del precedente governo di transizione, e in particolar modo l’ex primo ministro Abdalla Hamdok, avevano posto come condizione per il processo di transizione lo scioglimento delle RSF e la loro parziale integrazione all’interno delle Forze Armate regolari, in modo da diluirne il potenziale di rischio e favorendo la graduale fuoriuscita delle figure più controverse.
Proprio per questa ragione, tuttavia, il generale Dagalo ha cercato di minare sin dal primo giorno la capacità delle componenti civili del governo di transizione, nell’ottica di promuovere un colpo di stato a guida militare che potesse ristabilire le prerogative dell’esercizio dei poteri, ancora una volta saldamente nelle mani dell’Esercito.
Il generale Dagalo, tuttavia, ha sottovalutato i sentimenti popolari, non comprendendo come la società sudanese avesse ormai metabolizzato il processo di transizione democratica considerandolo come una tappa irreversibile del processo di sviluppo del paese.
Le continue proteste a Khartoum e nelle principali città del paese, unitamente alla crescente pressione della comunità internazionale, quindi, hanno spinto il generale al-Burhan ad intraprendere un percorso negoziale con le deposte autorità civili, in diretta contrapposizione con l’ala militare più radicale, rappresentata dal generale Dagalo e dagli interessi delle sue RSF.
In capo alle Forze di Supporto Rapido, infatti, sono riconducibili oltre la metà delle circa 300 aziende pubbliche direttamente controllate dal sistema delle Forze Armate. Un conglomerato industriale capace di generare ingenti profitti, di cui il generale Dagalo è uno dei principali fruitori.
Non meno complesso, infine, si presenta l’intreccio degli interessi internazionali che ruotano intorno alle differenti componenti del tessuto politico sudanese. Il governo civile guidato da Abdalla Hamdok aveva intrattenuto cordiali rapporti con la Russia e con la Cina, nell’ottica di sviluppare un bilanciamento del ruolo degli Stati Uniti nella complessa matrice degli interessi economici del paese. L’apertura alla possibilità di concedere basi navali e infrastrutture portuali tanto a Mosca quanto a Pechino ha tuttavia alienato progressivamente le simpatie di Washington da Abdalla Hamdok, pur non appoggiando in alcun modo il golpe militare del 25 ottobre scorso.
La linea politica del generale al-Burhan è stata invece impostata al rispetto degli equilibri diplomatici con gli Stati Uniti, con l’Egitto e con l’Arabia Saudita. Gli Stati Uniti rappresentano il garante economico del nuovo corso politico del Sudan, e solo tramite Washington il paese può beneficiare di una riduzione del debito estero e degli aiuti finanziari – adesso sospesi – da parte del Fondo Monetario Internazionale. L’Egitto guarda invece al generale al-Burhan come la più solida sponda politica su cui costruire la strategia anti-etiopica del Cairo, con l’obiettivo di costringere Addis Abeba a definire un accordo vincolante sulla gestione della diga del GERD. Il rapporto con l’Arabia Saudita è invece costruito sugli aiuti economici e sulla capacità di mediazione offerta da Riyadh al governo del Sudan sul piano regionale, compensando soprattutto l’attivismo emiratino.
Il generale Mohamed Hamdan Dagalo, invece, è notoriamente legato agli Emirati Arabi Uniti, che in Sudan – come altrove – perseguono la strategia del consolidamento di potere intorno a figure chiave dell’amministrazione militare, oltre a guardare con interesse alla possibilità di ingresso nella gestione delle infrastrutture portuali locali.