L’evoluzione del conflitto in Etiopia rappresenta in questa fase una variabile altamente critica per gli interessi e la sicurezza dell’Eritrea.

Dopo aver pienamente appoggiato la politica del premier Abiy Ahmed di intervento nella regione del Tigrai, sostenendone lo sforzo militare e pagandone il prezzo in termini di reputazione all’indomani della diffusione delle notizie sulle violenze commesse nel corso delle prime fasi dell’occupazione, l’Eritrea si è trovata disorientata dall’evoluzione del conflitto e soprattutto dall’incapacità dell’esercito federale di Addis Abeba e delle milizie a questo alleate di sostenere lo sforzo militare e contenere la travolgente controffensiva del TDF.

Asmara ha cercato di negare la propria partecipazione diretta al conflitto per oltre cinque mesi, ma il suo ruolo è stato pubblicamente confermato dallo stesso premier etiopico Abiy Ahmed, accrescendo il biasimo della comunità internazionale e determinando l’irrogazione di sanzioni da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.

A seguito della controffensiva dell’esercito tigrino, della riconquista di Macallè e di circa metà del Tigrai, nonché dell’occupazione di una porzione di territorio dello stato Amhara, l’Eritrea ha assunto una postura militare diretta più contenuta, limitandosi ad esercitare il controllo del territorio su una relativamente vasta area a ridosso del confine con il Tigrai.

Le forze dell’esercito eritreo continuano ad occupare un’ampia fascia di territorio tigrino lunga circa 200 Km e profonda circa 30 Km, che si snoda dalle periferie a nord di Adua sino al nord-est di Adigrat, esercitando il tal modo il controllo su due delle tre arterie stradali che collegano l’Etiopia all’Eritrea.

Meno chiara appare la situazione nell’area di confine orientale, in prossimità della cittadina un tempo contesa di Badme, che il governo di Abiy Ahmed ha riconsegnato alla sovranità eritrea circa due anni fa, insieme ad alcuni tratti di confine la cui demarcazione era stata contestata da Asmara.

Non è chiaro, allo stato attuale, come sia suddiviso il controllo della linea di confine tra il Tigrai e l’Eritrea nell’area nord-occidentale, mentre l’intera porzione di Tigrai ad ovest del fiume Tekeze e sino al confine con il Sudan è occupata e rivendicata dalle forze Amhara.

Per l’Eritrea la fase della controffensiva del Tigrai e la minaccia diretta su Addis Abeba comporta l’assunzione di un grave rischio.

È ben chiaro ad Asmara che il fallimento del tentativo di sconfiggere il TPLF ed eradicarlo dal controllo politico e militare del Tigrai abbia generato un fortissimo risentimento nei confronti dell’Eritrea e della leadership politica guidata dal presidente Isaias Afwerki. Tale risentimento è stato fortemente accresciuto dalle diffuse violenze commesse dall’esercito eritreo durante l’occupazione della regione del Tigrai, dai saccheggi delle città e delle aree industriali e soprattutto dalla brutalità dei numerosi stupri di cui si sono resi responsabili i militari eritrei, come ammesso dallo stesso premier etiopico Abiy Ahmed.

La prospettiva di una graduale capacità di ricomposizione di un rapporto così fortemente logorato appare in tal modo altamente improbabile, alimentando il concreto e ben fondato timore ad Asmara dell’imminenza di un conflitto diretto con i tigrini una volta che la situazione militare in Etiopia si sarà definita nello scontro tra il TPLF e le forze federali.

Se e quando il TPLF riuscirà a determinare la caduta del governo di Abiy Ahmed, e una volta ridefiniti gli equilibri politici e militari del paese – che, con ogni probabilità, transiteranno attraverso il tentativo del Tigrai di procedere in direzione dell’indipendenza dalla federazione – appare quindi altamente probabile che il vertice del potere politico tigrino intenda risolvere una volta per tutte i propri contrasti con il regime eritreo, lanciando un’operazione militare contro il paese nell’ottica di rimuoverne il vertice politico e favorire l’ascesa di un élite politica alleata.

Il progetto indipendentista del Tigrai, infatti, non può prescindere dalla necessità di aprire uno sbocco in direzione del Mar Rosso, che può tuttavia avvenire solo attraverso la rimozione del regime al governo dell’Eritrea.

Una variabile di particolare rilevanza in questa dinamica è rappresentata dalle migliaia di profughi eritrei ancora presenti sul territorio del Tigrai, in parte rimpatriati forzosamente dal governo di Asmara ma in larga misura ancora disseminati nell’intero territorio del Tigrai, oggetto di un trattamento ostile tanto da parte delle forze eritree quanto da quelle tigrine, che li hanno più volte considerati espressione della postura politica di Asmara e fatti oggetto di violenze.

Il governo del TPLF sembra in questa delicata fase dell’evoluzione conflitto incapace di trasformare le migliaia di profughi eritrei in una sorta di resistenza contro il regime di Asmara, mentre l’Eritrea non sembra disporre di sufficiente capacità militare per organizzare un rimpatrio forzato di quelli che un tempo occupavano ben quattro campi profughi gestiti dall’UNHCR.

Il comandante della 35° divisione di fanteria eritrea, il colonnello Berhane Tesfamariam, conosciuto anche come Wedi Kecha, secondo numerosi rapporti stilati dalle organizzazioni umanitarie che cercano di organizzare la gestione degli aiuti ella regione, avrebbe condotto una sistematica operazione di identificazione n ei campi profughi degli individui connessi a vario titolo con le organizzazioni anti-governative, riuscendo tuttavia ad identificare e trasferire in Eritrea solo alcune centinaia di individui.

Restano quindi in Tigrai, sebbene in condizioni di estrema precarietà, diverse migliaia di cittadini eritrei che il TPLF potrebbe voler organizzare come milizie anti-governative, determinando un concreto rischio per la sicurezza della vicina Eritrea.

Questa ipotesi è tuttavia vanificata al momento dall’azione incontrollata delle diverse milizie territoriali tigrine, che, ad oggi, ha al contrario spesso sfogato il proprio risentimento verso l’Eritrea attraverso la sistematica vessazione dei profughi, vanificando in tal modo la possibilità di una loro organizzazione in chiave anti-governativa da schierare contro il regime di Asmara.

Il governo eritreo, invece, appare disorientato nella gestione dell’evoluzione della crisi in atto. Trincerandosi dietro ad una ormai del tutto inutile retorica nazionalista, alimentata e diffusa da una fitta quanto scarsamente credibile rete di compiacenti profili sui principali social media, i vertici del sistema politico di Asmara si avviano inesorabilmente verso una nuova fase di isolamento politico internazionale, insostenibile tanto politicamente quanto economicamente e socialmente.

Per impedire quella che ad oggi appare come la prossima – ed inevitabile – resa dei conti tra tigrini ed eritrei, servirebbe un attore internazionale capace urgentemente di costruire e gestire una mediazione orientata ad offrire incentivi ad entrambi gli attori della crisi, separando le dinamiche del conflitto in Etiopia dalle ataviche conflittualità che rischiano di innescare un nuovo e più sanguinoso fronte di conflitto tra il Tigrai e l’Eritrea. Attore che, almeno in apparenza, non è presente né sul piano regionale, né su quello globale.

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