L’8 dicembre il presidente del Consiglio Nazionale di Transizione del Sudan, Gen. Abdel Fattah al-Burhan, ha affermato che l’intera area dell’al-Fashaga sarebbe ritornata sotto il controllo delle forze armate sudanesi, dopo gli intensi combattimenti della settimana precedente contro le forze federali dell’Etiopia e le loro alleate milizie Amhara.
Secondo il generale al-Burhan, nel corso degli scontri avrebbero perso la vita 16 soldati sudanesi, mentre “dozzine” di soldati nemici sarebbero stati uccisi e centinaia feriti nel corso dei combattimenti.
L’agenzia di stampa governativa etiopica ha invece accusato il Sudan di sostenere i ribelli del Tigrai, e di essere coinvolto nel conflitto civile etiopico fornendo rifugio, assistenza e rifornimento alle milizie del TDF. Accuse seccamente smentite dal ministero degli esteri del Sudan il 9 dicembre, che, attraverso la propria agenzia di stampa governativa ha rigettato ogni addebito da Addis Abeba, definendo infondate le accuse di aver ospitato ed addestrato le formazioni del TDF.
Solo il giorno precedente il generale al-Burhan aveva commentato ai microfoni della radio nazionale lamentando le interferenze internazionali nella politica domestica del Sudan, affermando come un gran numero di diplomatici stranieri sarebbe impegnato nel tentativo di influire sulle dinamiche del processo politico in atto, con il rischio di destabilizzare il paese.
Pur senza accusarli in modo esplicito, il generale al-Burhan ha puntato il dito contro le ingerenze dei diplomatici stranieri nell’ambito del processo di crisi che ha visto moltiplicarsi l’attività dei gruppi di opposizione, che si oppongono a qualsiasi ruolo dei militari dopo il golpe del 25 ottobre scorso.
Il 6 dicembre una nuova ondata di proteste aveva portato per le strade di Khartoum e di altre città del paese un gran numero di manifestanti, poi dispersi dalle forze di sicurezza attraverso l’impego di gas lacrimogeni e unità anti-sommossa. Manifestazioni di ampie proporzioni sono state organizzate in contemporanea nella capitale, Khartoum, e nelle città di Omduraman, Kassala, Sennar e Porto Sudan.
I manifestanti hanno scandito slogan contro i vertici del Consiglio Sovrano di Transizione, chiedendo alla comunità internazionale di congelare gli aiuti finanziari concessi al governo del Sudan controllato dalle autorità militari. Secondo le formazioni di opposizione che non intendono accettare alcun compromesso politico con le forze di governo, è essenziale in questa fase delegittimare i militari dell’esercito sudanese e le milizie a questo alleate, per scardinarne il potere e costringerle a trasferire ad un governo civile l’esercizio del potere politico.
La questione finanziaria rappresenta un elemento cruciale per la tenuta delle istituzioni del Consiglio Sovrano di Transizione, che, secondo quanto affermato dallo stesso ministro delle Finanze Jibril Ibrahim lo scorso 7 dicembre, necessita oggi urgentemente di aperture, dopo il congelamento lo scorso mese di 650 milioni di US$ della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, oltre a 700 milioni di US$ del governo degli Stati Uniti.
Si moltiplicano invece anche le accuse e gli slogan anche contro il primo ministro Abdalla Hamdok, accusato dalle opposizioni di aver ceduto ad un compromesso con i militari pur di difendere le proprie personali prerogative politiche, tradendo in tal modo lo spirito della rivoluzione che portò alla caduta di Omar al-Bashir e all’avvio del processo di transizione.
Negli Stati Uniti, invece, la commissione per gli Affari Esteri della Camera ha approvato il 9 dicembre il Sudan Democracy Act, a seguito di una risoluzione che condanna il golpe del 25 ottobre scorso e impone sanzioni mirate contro gli individui ritenuti responsabili di impedire la piena esecuzione della transizione politica del paese. Il dispositivo, che dovrà adesso essere discusso e votato in aula, prevede l’irrogazione di sanzioni che includono il congelamento dei beni e il divieto di ingresso negli Stati Uniti. Un provvedimento simile è al voto anche al Congresso.
La questione del Sudan ha determinato una profonda incertezza a Washington, dove una parte del sistema politico vorrebbe riprendere la strada della collaborazione con il primo ministro Abdalla Hamdok, pur intendendo riaffermare il biasimo contro i militari per quanto accaduto in conseguenza del golpe di ottobre. Più pragmatico il Pentagono, che al contrario guarda con sospetto alle simpatie di Hamdok per Cina e Russia – e conseguentemente alla possibilità di apertura di basi navali militari sul Mar Rosso – mentre sul piano del rapporto con i militari non vorrebbe deteriorare la relazione con il generale al-Burhan, visto come unico baluardo contro il ruolo e gli interessi del generale Dagalo e delle sue Forze di Supporto Rapido.
Secondo l’inviato speciale dell’ONU, Volker Perthes, il rischio di sanzioni è incombente e i militari sudanesi devono comprendere come sia improrogabile l’adozione di un processo di ricostruzione della fiducia politica con le opposizioni, e soprattutto con i giovani sudanesi che si sono sentiti traditi dall’improvvida azione delle forze armate dello scorso 25 ottobre. Il processo di riconciliazione nazionale, secondo Perthes, è anche necessario per rafforzare la fiducia internazionale che è alla base degli impegni per l’erogazione degli aiuti finanziari.
Tensione nuovamente elevatissima nella regione del Darfur, inoltre, dove il governo sudanese ha dispiegato il 7 dicembre un contingente di 3.300 militari per fronteggiare una nuova recrudescenza della violenza tribale.
Il dispiegamento si è reso necessario in conseguenza dell’impossibilità di dar seguito agli accordi di Juba tra il governo e i gruppi ribelli, in base al quale 12.000 uomini di un contingente comune avrebbero dovuto essere schierato nel Sudan Occidentale a difesa della popolazione civile.
Il nuovo contingente, che rappresenta tuttavia solo una frazione di quello previsto dagli accordi pace, sarà composto da 1.500 soldati delle Forze di Supporto Rapido, da 1.500 militari forniti dai gruppi armati del Darfur e da 300 militari dell’esercito regolare sudanese, sotto il comando di un generale espresso dal governo di Khartoum. Supporterà il contingente un’ulteriore unità di 150 uomini del General Intelligence Service, con il compito di facilitare il dispiegamento e l’avvio delle operazioni.