Il 17 e il 18 dicembre una nuova ondata di manifestazioni contro il governo e soprattutto i militari ha interessato la capitale del Sudan, Khartoum, e alcune delle principali città del paese.

Il Movimento per la Libertà e il Cambiamento ha invitato i sudanesi a manifestare contro le autorità militari del Consiglio Sovrano di Transizione e contro il premier Abdalla Hamdok, accusato di aver ceduto al compromesso con i vertici delle Forze Armate dopo il colpo di stato che lo aveva deposto lo scorso 25 ottobre.

È stata ingente la partecipazione alle manifestazioni di protesta, nell’ambito delle quali hanno partecipato personaggi di spicco del deposto governo, tra i quali in particolar modo l’ex ministro Khalid Omar Youssef, la cui popolarità è incrementata enormemente nel corso delle ultime settimane, in conseguenza delle accuse rivolte ai vertici militari e soprattutto alle formazioni delle Forze di Supporto Rapido, comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemetti, ritenute le principali responsabili del golpe di ottobre.

Alcune unità delle Forze Armate hanno cercato di disperdere le manifestazioni attraverso il lancio di candelotti fumogeni, ma non sono stati segnalati particolari episodi di violenza, facendo registrare un mutamento nell’approccio del governo all’ordine pubblico rispetto alle settimane precedenti, quando invece si erano registrate decina di vittime nel corso delle continue manifestazioni.

Le forze dell’opposizione politica accusano tanto i vertici militari del Consiglio Sovrano di Transizione quanto il primo ministro Abdalla Hamdok, ritenuto colpevole di aver ceduto al compromesso con i militari e aver accettato la propria reintegrazione a danno del processo di riforme chiesto a gran voce dalla società sudanese. Hamdok ha affermato nel corso di un’intervista televisiva che il processo rivoluzionario del Sudan “ha subito una battuta d’arresto in conseguenza dell’intransigenza di tutte le forze politiche”, suscitando in tal modo nuove critiche e fornendo ai manifestanti nuovi elementi su cui costruire le proprie rivendicazioni contro i militari e il primo ministro.

Sul piano della politica nazionale, invece, nessun progresso è stato raggiunto nel dialogo per la definizione della Carta Nazionale che dovrebbe idealmente favorire la nascita del nuovo Consigli Legislativo, il Parlamento di transizione incaricato di condurre il paese alle elezioni generali e al conseguente trasferimento del potere legislativo ed esecutivo ad un governo civile.

Non accennano nel frattempo a diminuire le violenze nella regione del Darfur, dove gli scontri tra le tribù di etnia arabe e africane sono tornate a scontrarsi provocando decine di vittime nel corso dell’ultima settimana. L’invio di un nuovo modesto contingente da parte del governo di Khartoum non ha sortito alcun effetto, e la comunità internazionale si interroga sull’opportunità da parte delle Nazioni Unite di terminare lo scorso dicembre il mandato della missione congiunta di peacekeeping con l’Unione Africana (UNAMID).

A partire dal gennaio del 2021, infatti, soprattutto nel Darfur occidentale si sono moltiplicate le violenze ai danni della popolazione civile, in seguito alla ripresa degli scontri tra le milizie che si dividono il controllo del territorio nell’atavico scontro tra gli agricoltori e i loro interessi stanziali e gli allevatori e i loro interessi nomadici, per il controllo delle aree fertili e delle sorgenti d’acqua.

Le violenze sono state fortemente incentivate in passato all’epoca del regime di Omar al-Bashir, con la creazione di milizie che oggi le forze politiche cercano di ricondurre all’interno di un complesso e difficile dialogo di riconciliazione nazionale, ostacolato dall’azione di alcune componenti dell’apparato militare.

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