Il 28 dicembre il primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok, ha manifestato pubblicamente la propria volontà di dimettersi dall’incarico di governo, stante l’impossibilità – a suo giudizio – di poter guidare un esecutivo stabile e, soprattutto, la capacità di convincere le parti politiche sudanesi della necessità di un compromesso.

Numerosi capi di stato e leader politici internazionali lo avrebbero prontamente contattato, chiedendogli di restare al proprio posto e guidare questa difficile fase di transizione del paese.

La notizia di possibili imminenti dimissioni del premier Hamdok circola in realtà già dal 22 dicembre scorso, dopo che le continue manifestazioni di protesta avevano ribadito il rifiuto più assoluto ad ogni compromesso con le forze armate, accusando al tempo stesso Hamdok di aver tradito la causa rivoluzionaria.

In molti, tra gli oppositori del primo ministro, sembrano sospettare che questo continuo minacciare le proprie dimissioni, rappresenti uno stratagemma di Hamdok per convincere le componenti meno radicali dell’opposizione ad accettare un compromesso politico che includa la partecipazione delle forze armate alla delicata fase di transizione che interessa il paese, senza tuttavia sortire l’effetto auspicato.

Secondo i sostenitori del primo ministro, invece, è il senso di responsabilità a mantenere Hamdok al su posto, nella consapevolezza che una sua resa aprirebbe le porte ad un ruolo più incisivo dei militari, potenzialmente destinato ad incrementare esponenzialmente la violenza nel paese.

Una posizione certamente non facile, quella del premier Hamdok, transitato nella percezione della società sudanese in breve tempo da vittima a complice del regime militare, in un clima sociale di costante agitazione, caratterizzato da manifestazioni sempre più imponenti, nell’apparente impossibilità di dare corpo ad un nuovo governo che sia legittimato e capace di condurre il paese verso le agognate elezioni previste per il 2023.

Il 25 dicembre una delegazione del Partito Nazionale della Umma (NUP) si è recato ad incontrare il primo ministro in veste autonoma rispetto al più generale movimento di opposizione, senza tuttavia rilasciare alcuna dichiarazione al termine dell’incontro.

Tra le poche indiscrezioni trapelate dal leader del NUP Fadlallah Burma e della sua vice Mariam al-Mahdi è circolata quella di una richiesta da parte del primo ministro Hamdok per un incontro con i vertici delle Forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC). Il giorno successivo tuttavia, Mutaz Salih, un esponente del Consiglio Centrale del FFC le Forze per la Libertà e il cambiamento (FCC), ha fatto sapere che il Consiglio ha rifiutato la richiesta di incontro indirettamente formulata dal primo ministro Hamdok, chiudendo in tal modo le porte a qualsiasi formula di compromesso che non preveda l’uscita di scena dei militari.

Il 31 dicembre, infine, una nuova imponente manifestazione ha portato ancora una volta per le strade di Khartoum e delle principali città del Sudan una ingente folla di manifestanti, nella continua protesta contro il regime militare responsabile di aver condotto il colpo di stato dello scorso 25 ottobre. Questa volta, tuttavia, a differenza delle manifestazioni della settimana scorsa, i militari hanno provocato la morte di quattro manifestanti, facendo tornare altissima la tensione.

Il portavoce delle forze armate del Sudan ha invece accusato lo scorso 30 dicembre l’Etiopia di essere impegnata ad organizzare un imponente schieramento di forze lungo il confine tra i due paesi, con il presumibile intento di voler tentare una nuova avventura militare nell’area dell’al Fashaga, tornata da alcune settimane sotto il pieno controllo dell’esercito di Khartoum.

Nessuna conferma dei movimenti di truppe da parte dell’Etiopia, dove tuttavia nei giorni scorsi è circolata la notizia di un piano ordito dalle forze del Tigrai per attaccare gli stati regionali dell’Amhara e dell’Oromia attraverso un attacco a sorpresa dal Sudan. Notizia che, allo stato attuale, sembra destituita di qualsiasi fondamento.

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