Il 2 gennaio, dopo settimane di annunci e smentite, ha ufficialmente rassegnato le proprie dimissioni il primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok.
Giudicando insanabile la crisi politica in atto, e ammettendo l’impossibilità di convincere le forze delle opposizioni politiche della necessità di un compromesso, il primo ministro ha dovuto accettare l’evidenza di un contesto politico ormai completamente polarizzato e in alcun modo riconciliabile attraverso un compromesso.
Hamdok ha annunciato le proprie dimissioni nel corso di un’intervista televisiva diramata dalla televisione nazionale nella prima serata del 2 dicembre, ribadendo la propria convinzione della necessità di un accordo tra le forze di opposizione e il governo inclusivo dei vertici delle forze armate, che, secondo l’ex primo ministro, rappresenta l’unica possibilità per salvare il processo di transizione politica in atto in Sudan.
Hamdok ha continuato nel suo discorso invitando le parti ad accettare la proposta di un tavolo di lavoro finalizzato alla definizione di una nuova “carta nazionale”, in assenza della quale sarà impossibile determinare una tabella di marcia per l’organizzazione delle elezioni e la transizione verso la democrazia.
Hamdok, apertamente sfiduciato dalle opposizioni in conseguenza della sua accettazione di un nuovo incarico da parte delle stesse autorità militari che lo avevano destituito ed arrestato lo scorso 25 ottobre, non è riuscito a convincere la società sudanese – e soprattutto la sempre più agguerrita opposizione politica – della necessità di un compromesso, onde evitare lo scontro diretto soprattutto con quelle frange delle forze armate ben note per il proprio autoritarismo e l’interesse nella difesa dei radicati interessi economici posti sotto il loro diretto controllo.
Le dimissioni di Hamdok aprono adesso una nuova e del tutto inesplorata fase della crisi politica in corso in Sudan, alimentando il timore di un più deciso intervento militare soprattutto per arrestare le continue manifestazioni pubbliche di protesta contro il governo.
Il vertice militare che guida il paese, diviso al suo interno tra la componente delle forze regolari e quella delle milizie autonome – in particolar modo le Forze di Supporto Rapido del Gen. Dagalo – si trova adesso dinanzi all’incognita della possibilità di formare un nuovo governo a guida civile dotato di credibilità e legittimità.
L’evidente tentativo di contenere le continue manifestazioni pubbliche limitando quanto più possibile l’impiego della forza – condizione necessaria per impedire che nuove vittime possano alimentare una ribellione di più ampia misura – potrebbe essere adesso vanificato dalla tangibile tensione tra le forze armate e quelle di polizia, e la contestuale possibile volontà di alcune frange dell’apparato militare di esercitare l’impiego di misure autoritarie per ricondurre sotto la sfera militare l’intero esercizio del controllo politico del paese.
È evidente, allo stato attuale, come l’apparato militare non intenda recedere dalle prerogative di cui è titolare sin dai tempi del regime di Omar al-Bashir, e in particolare questo è soprattutto palese per la componente delle milizie autonome – molte delle quali create proprio da Omar al-Bashir per alimentare il conflitto nella regione del Darfur – che oggi controllano una importante parte del sistema economico nazionale. Anche la componente delle forze armate regolari non intende recedere dal proprio ruolo centrale nella gestione del potere politico, sebbene in quest’ambito siano ravvisabili posizioni diverse e mediamente meno radicali di quelle che invece caratterizzano le milizie autonome.
Le prospettive di gestione della crisi politica, in tal modo, si riducono in questa fase al perpetuarsi del tentativo da parte dei militari di nominare un nuovo primo ministro che si ponga in sintonia con le proprie richieste, senza considerare tuttavia come una scelta di questo tipo potrebbe rivelarsi fatale per la gestione del malcontento popolare, come dimostrato ampiamente dall’opposizione all’ex primo ministro Hamdok.
Sul fronte delle relazioni regionali, invece, la stampa sudanese ha riportato la notizia dell’incontro tra una delegazione militare etiopica ed una sudanese, nell’ambito della quale è stata chiesta dalle forze federali di Addis Abeba la riapertura del posto di confine di Gallabat-Metema. Il governo di Khartoum sembra essersi opposto alla richiesta, mentre la stampa etiopica ha nuovamente accusato il Sudan di dare ospitalità e addestramento ai combattenti Tigrini riparati in territorio sudanese con lo status di rifugiati.