La visita del ministro degli esteri cinese Wang Yi in Eritrea si è conclusa il 6 gennaio, potendosi delineare per il governo dell’Asmara un bilancio complessivo decisamente positivo.

La visita del ministro degli esteri della Cina in Eritrea segue di un mese quella effettuata nella vicina Etiopia, e, nell’ottica di Pechino, si inserisce nel solco della medesima strategia atta a consolidare il rapporto politico ed economico con i due paesi del Corno d’Africa. L’incontro suggella anche il pieno riconoscimento di fatto della condotta tanto dell’Etiopia quanto dell’Eritrea nel conflitto del Tigrai, avallando pienamente ed esplicitamente la narrativa dell’ingerenza straniera nel paese e nella regione.

Un linguaggio che, pur senza menzionarli direttamente, esplicita la condivisione da parte della Cina della narrativa anti-USA ed anti-UE che ha fortemente caratterizzato gli ultimi mesi del conflitto in Tigrai, dove tanto ad Addis Abeba quanto all’Asmara si denuncia la sussistenza di un complotto internazionale atto a favorire il ruolo e la capacità del Tigrai e del suo partito di governo, il TPLF.

Il viaggio in Eritrea del ministro Wang Yi, in tal senso, è apparso chiaramente come parte di un medesimo approccio regionale condiviso con l’Etiopia, nel tentativo di rafforzare la posizione di Pechino ponendosi come attore internazionale di riferimento delle prerogative politiche e di sicurezza dei due paesi.

Il ministro Wang ha annunciato nel corso della sua visita che Pechino intende nominare a breve un rappresentante speciale per il Corno d’Africa, richiamando in tal modo alla sempre maggiore valenza strategica che la regione ha assunto nella percezione globale del governo cinese.

In tale direzione si orienterebbe anche l’interesse per l’accesso ai principali porti dell’Eritrea, Massaua ed Assab, nei quali la Cina ritiene di poter sviluppare infrastrutture civili e militari connesse con lo sviluppo della One Belt One Road initiative. Progetti ambiziosi, peraltro già valutati in passato, dove l’Eritrea potrebbe tuttavia trovarsi adesso a dover valutare concretamente i termini di una nuova offerta cinese, politicamente difficile da rifiutare anche a fronte dei timori sul piano economico.

L’8 gennaio, infine, in occasione del nuovo anno, il presidente Isaias Afwerki ha rilasciato un’intervista alla televisione locale ERI-TV, tornando a parlare della crisi in Etiopia e ribadendo le responsabilità del TPLF nell’aver scatenato il conflitto.

Secondo Afwerki, la strategia del vertice politico del Tigrai era quella di interrompere il processo di riforme in atto in Etiopia e, soprattutto, attaccare l’Eritrea. Circostanza che ha comportato la necessità di difesa e la partecipazione nel conflitto.

La ritirata delle forze federali da Macallè è stata definita da Isaias Afwerki come inaspettata, senza tuttavia alterare l’impegno di difesa dell’Eritrea nel conflitto.

Il discorso si è poi concentrato su una lunga rivisitazione storica del lungo cammino verso l’indipendenza dell’Eritrea e dei problemi causati dall’élite tigrina già in sede di definizione della nuova costituzione etiopica, giudicata da Afwerki come inadatta e foriera di futuri problemi.

La crisi odierna, in sintesi, è stata determinata a giudizio del presidente eritreo dal deliberato progetto delle forze politiche tigrine di voler indebolire il paese attraverso il ricorso all’antagonismo etnico, che, attraverso l’adozione di una costituzione intenzionalmente definita per dividere a vantaggio dei tirgini, ha determinato le basi per la crisi consumatasi nel corso dell’ultimo anno.

Il progetto di polarizzazione etnica che ha caratterizzato gli sforzi della politica del TPLF in questi anni, secondo il presidente eritreo, è il frutto di un deliberato disegno atto a indebolire la stabilità dell’Etiopia e della regione, ed è il frutto anche delle ingerenze esterne che hanno collaborato con il TPLF in questa direzione.

Una minaccia non cessata, secondo Isaias Afwerki, che impone all’Eritrea di non abbassare la guardia e proseguire lungo le linee strategiche che hanno definito l’interesse eritreo dalla sua indipendenza sino ad oggi. Una minaccia che richiede l’impegno vigile dell’Eritrea e la sua attiva partecipazione alla determinazione delle dinamiche regionali, al fine di impedirne la destabilizzazione attraverso la contrapposizione delle popolazioni che la abitano.

Il presidente eritreo ha poi continuato fornendo un’analisi storica retrospettiva dell’ultimo mezzo secolo, evidenziando quella che a suo giudizio è la manifestazione di una strategia di dominio USA del pianeta, che non ha saputo comprendere la storia e si trova oggi a fronteggiare attori emergenti potenti, come la Cina, nei confronti dei quali dispone di strumenti insufficienti e incapaci di perpetuare la strategia di dominio avviata dopo la seconda Guerra Mondiale e la fine della Guerra Fredda.

L’intervista del presidente eritreo è stata lunga e articolata, a tratti ripetitiva, e ha dato spesso l’impressione di voler giustificare agli occhi dell’Eritrea l’impasse in cui il paese si trova in questo momento. Una stasi, caratterizzata dall’incerto esito del conflitto in Etiopia e dalle reali capacità del sistema politico di Abiy Ahmed di favorire un esisto positivo della crisi. Una condizione che, in sintesi, impone all’Eritrea di perseguire nel solco delle proprie strategie politiche, contrastando il tentativo di destabilizzare la regione e – secondo Afwerki – vanificare i risultati dell’impegno eritreo nell’assicurare la propria indipendenza e stabilità.

Un invito a collaborare in funzione di quella resilienza che ha caratterizzato le dinamiche della vita politica e sociale dell’Eritrea sin dalla sua indipendenza, e quindi l’abbandono – di fatto – di qualsiasi aspettativa di reale mutamento di indirizzo nel prossimo futuro.

Si è trattato certamente di un discorso volutamente costruito intorno alla volontà di celebrare il ruolo della Cina e il rinnovato impegno dell’Eritrea al fianco di Pechino per il contenimento delle ambizioni degli Stati Uniti e dell’Europa, ma anche di un monito per l’incertezza sul futuro dell’Etiopia e, di fatto, della capacità del primo ministro Abiy Ahmed.

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