Dopo lo stallo successivo alla controffensiva governativa contro il Tigrai e dopo i numerosi appelli ad una soluzione pacifica pare che una soluzione sia nell’orizzonte del possibile, sebbene in molti temono possa trattarsi dell’ennesima mossa per intorbidire le acque.

Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, il 19 gennaio ha affermato che c’è “uno sforzo comprovato verso la pace” dopo aver sentito la relazione dell’inviato dell’Unione Africana incaricato di seguire le relazioni fra le due parti in causa. Olusegun Obasanjo, ex presidente della Nigeria, ha avuto numerosi incontri sia coi leader del TPLF che con le forze governative negli ultimi mesi, ma pare che sia questo il momento in cui i suoi sforzi di riconciliazione stiano avendo maggiori risultati: questi, secondo Guterres, “ha espresso ottimismo rispetto alla una reale opportunità di una risoluzione politica e diplomatica del conflitto”.

Nella stessa giornata, il nuovo inviato speciale del governo statunitense per il Corno d’Africa, David Satterfield, e l’assistente al Segretario di Stato Molly Phee erano in viaggio per l’Etiopia con lo stesso intento, secondo quanto riportato da Alex de Waal. Il presidente Abiy Ahmed con cui s’incontreranno ha difatti mostrato alcuni segnali di apertura: ha avuto la sua prima telefonata con il presidente Biden dall’inizio del conflitto ma, soprattutto, ha liberato numerosi prigionieri politici.

L’idea di Abiy è infatti quella di creare un ‘dialogo nazionale’ per dirimere le numerose controversie che sono emerse dallo scoppio del conflitto: prima di tutte la sollevazione degli oromo, il gruppo etnico di provenienza del presidente, che anche di recente ha avuto forti scontri con la polizia federale ad Addis Abeba durante i festeggiamenti religiosi per l’Epifania (in cui almeno due manifestanti sono morti). Difatti la domanda principale non è più la questione tigrina, ma quanto supporto, e di conseguenza legittimità, ha Abiy dopo un anno di conflitto. Il primo ministro ha addirittura affermato di “essere pronto per la prossima consultazione nazionale se le sue dimissioni sono viste come una soluzione” e che “non esiterà se i problemi del paese verranno così risolti”. Anche il presidente keniota, Uhuru Kenyatta, che ha agito “dietro le quinte” secondo de Waal, è ottimista rispetto all’inizio delle negoziazioni.

Intanto, come già riportato la settimana scorsa, la situazione sul campo in Tigrai è più che critica: 5 milioni di persone soffrono della carestia. Le stime sono oramai totalmente teoriche, difatti sono più di sei mesi che circa 400,000 persone dovrebbero essere colpite dalla carestia ma dato che solo il 12% degli aiuti alimentari sono riusciti ad entrare nella regione è ragionevole affermare che l’intera popolazione del Tigrai subisce una privazione alimentare di qualche tipo.

Intanto il presidente eritreo, Isaias Afewerki, ha espresso il suo disappunto per la posizione di Abiy rilasciando una delle sue rare interviste e dicendosi determinato a schiacciare il Tigrai.

Allo stesso tempo Getachew Reda, portavoce del TPLF, si dice soddisfatto della possibilità di una soluzione pacifica ma intanto avverte che Abebew Tadesse, il Capo di Stato Maggiore della Repubblica Etiopica, ha dichiarato che le sue forze sono pronte ad attaccare il Tigrai, alimentando la confusione in una situazione già di per sé caotica.

Le prossime settimane saranno cruciali sia per la figura politica di Abiy Ahmed che per la continuazione del conflitto, ma, in particolare, saranno determinanti per il Tigrai che, con l’apertura di una eventuale negoziazione, potrebbe ricevere i tanto necessari aiuti per mitigare una carestia tanto annunciata quanto poco supportata sia dal governo federale che dalla comunità internazionale.

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