È stato arrestato nuovamente in Sudan il 13 febbraio Mohamed al-Faki Suleiman, già membro del precedente governo ed esponente del partito Alleanza Unionista. Al-Faki era stato posto una prima volta agli arresti domiciliari lo scorso 25 ottobre, dopo il colpo di Stato che aveva destituito il governo del primo ministro Abdalla Hamdok, ma era stato poi posto nuovamente in libertà poco dopo, riprendendo la propria attività politica all’interno delle forze di opposizione.

Il suo arresto segue quelli della settimana precedente che hanno portato in carcere alcuni importanti esponenti delle forze di opposizione, tra i quali l’ex ministro Khaled Omar Youssef e il portavoce del movimento Forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC), Wagdi Saleh, nel tentativo da parte del governo di silenziare le più importanti voci del movimento di opposizione al regime militare.

Lo stesso giorno, un gruppo di intellettuali sudanesi ha recapitato una lettera al portavoce dell’Unione Africana, in visita a Khartoum, chiedendo all’organizzazione internazionale africana di unirsi alle Nazioni Unite nello sforzo per la ricerca di una soluzione politica in Sudan, senza creare un processo parallelo di dialogo che verrebbe strumentalizzato dalla giunta militare per guadagnare tempo nel perpetuare il proprio ruolo.

Secondo i firmatari della lettera, l’Egitto, nel suo ruolo di presidenza pro tempore del Consiglio per la Pace e la Sicurezza dell’Unione Africana, avrebbe esercitato la sua influenza politica per impedire l’adozione di misure ulteriori contro il governo militare sudanese, suo alleato su numerose questioni di interesse regionale.

Il 14 febbraio si sono poi tenute nuove imponenti manifestazioni di piazza a Khartoum e nelle principali città del paese, dove purtroppo si sono verificati incidenti che hanno provocato la morte di due manifestanti e il ferimento di almeno 170 persone. Il totale dei manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza sudanesi a partire dal golpe dello scorso 25 ottobre è salito a 81, in una spirale di violenza che non accenna a diminuire, nell’intransigenza della giunta militare di governo.

Preoccupato per l’evoluzione della protesta e per la violenza che ha determinato ancora una volta la morte di alcuni manifestanti, il presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, il generale Abdel Fattah al-Burhan, ha annunciato il 17 febbraio nel corso di una cerimonia militare presso la base aerea di Wadi Seidna la disponibilità della giunta militare ad “aprire le proprie braccia a tutte le componenti politiche del paese”, allo scopo di favorire il dialogo nazionale e il processo di riconciliazione chiesto da più parti.

Il generale al Burhan rappresenta certamente un elemento prioritario degli interessi – soprattutto economici, oltre che politici – della giunta militare e del suo disegno per restare al potere, sebbene su posizioni differenti rispetto al vice presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, il generale Dagalo, comandante delle Forze di Supporto Rapido. Il generale al Burhan è espressione delle forze armate regolari del paese, a differenza del generale Dagalo che comanda invece una milizia creata all’epoca della dittatura di Omer al-Bashir per la conduzione delle più efferate operazioni militari nella regione del Darfur. Entrambi sono al vertice di una vasta rete di interessi economici e industriali che fanno capo alle organizzazioni militari del paese, e che generano enormi benefici economici individuali all’interno di una ristretta cerchia di alti ufficiali delle forze armate. La posizione del generale al Burhan, tuttavia è sempre stata caratterizzata da un profilo diverso rispetto a quella del vice presidente Dagalo, nel tentativo di favorire una gestione della gravissima crisi nazionale attraverso strumenti e strategie capaci – almeno idealmente – di ripristinare i termini generali di un dialogo nazionale. Il generale Dagalo, al contrario, ha una visione più drastica e severa della crisi politica, è meno incline al dialogo e non intende in alcun modo cedere alle richieste della società civile sudanese, soprattutto per quanto concerne lo scioglimento delle milizie delle Forze di Supporto Rapido e per il trasferimento alle istituzioni civili degli ingenti interessi economici dell’apparato militare.

Il 14 febbraio, invece, numerosi ufficiali delle forze armate sarebbero stati sospesi dal servizio nell’ambito di una vasta indagine condotta su un presunto tentativo di colpo di Stato. La notizia è stata confermata dal comandante delle forze terrestri, il generale Issam Karar, che, nel corso di un’intervista televisiva, ha riferito di un tentativo delle forze politiche di convincere numerosi militari ad aderire ad un progetto di golpe. Nessuna indicazione, invece, in merito al numero, al grado e all’identità dei militari sospesi dal servizio.

Ad aggravare ulteriormente la situazione, inoltre è giunta il 17 febbraio la notizia dell’interruzione anticipata del viaggio a Khartoum dell’inviato speciale per il Corno d’Africa del Dipartimento di Stato USA, David Satterfield, ufficialmente per motivi personali. Arrivato nella capitale sudanese il giorno precedente da Abu Dhabi, Satterfield doveva incontrare il 17 febbraio i vertici militari di governo, cercando di favorire una via d’uscita alla grave politica. Poco dopo, invece, ha annunciato di dover lasciare il paese per ragioni personali, che alcune fonti sudanesi hanno attribuito a problemi di salute. L’incontro con il generale al Burhan è stato poi condotto dall’incaricato d’affari USA, l’Ambasciatrice Lucy Tamlyn, che ha poi incontrato separatamente anche il generale Dagalo.

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