La Commissione Etiopica per la Riconciliazione, costituita per volontà del parlamento dell’Etiopia il 25 dicembre del 2018, è stata sciolta il 1° marzo.
Costituita con l’obiettivo di “promuovere il dialogo per mantenere la pace, la giustizia e l’unità nazionale e favorire il consenso e la riconciliazione tra i popoli dell’Etiopia”, la Commissione ha ricevuto il 1° marzo dal governo l’ordine di trasferire il proprio budget ancora inutilizzato alla recentemente istituita Commissione Nazionale di Riconciliazione, formata il 29 dicembre del 2021.
La Commissione Etiopica di Riconciliazione era stata costituita al fine di identificare le cause delle crisi e dei conflitti che hanno interessato il paese nel corso degli anni più recenti, favorendo l’identificazione delle vittime di tali crisi e delineando strumenti per favorire la pacifica convivenza dei popoli dell’Etiopia.
Dopo oltre tre anni di lavori, tuttavia, il governo ha reputato insufficiente il lavoro della Commissione, senza alcun tangibile risultato, e deciso di scioglierla costituendo al suo posto la nuova Commissione Nazionale di Riconciliazione.
Il passaggio di consegne tra le due commissioni è stato fortemente accelerato dal conflitto in Tigrai, e dalla necessità di ampliare e adattare gli obiettivi alla nuova dimensione della stabilità del paese.
Su questo tema è intervenuto anche il primo ministro Abiy Ahmed, che, il 3 marzo, ha tenuto una conferenza stampa per illustrare il punto di vista del governo sullo stato della sicurezza nazionale e del conflitto nel nord del paese, caratterizzato ancor oggi da tensioni e violenze lungo il confine tra gli stati regionali del Tigrai e dell’Afar.
Secondo Abiy Ahmed il perdurante conflitto ha avuto conseguenze devastanti sulla società e sull’economia, invitando tutte le parti coinvolte ad esercitare la massima cautela per non esacerbare una situazione già estremamente complessa e delicata.
Il discorso del primo ministro è stato pronunciato il giorno successivo al voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la condanna dell’aggressione russa all’Ucraina, dove l’Etiopia ha deciso di astenersi dal voto facendo disertare la sala dal proprio personale diplomatico.
Abiy Ahmed non ha fatto menzione del voto all’ONU, né della posizione dell’Etiopia nel merito della questione relativa all’aggressione russa all’Ucraina, limitandosi ad esprimere la propria preoccupazione per l’evoluzione di quella che ha genericamente definito come la “retorica dell’escalation”.
È in tal modo emerso appieno come il dibattito internazionale sulla crisi ucraina abbia determinato un visibile imbarazzo nella gestione della narrativa nazionale sul conflitto con il Tigrai, determinando l’esigenza di assumere una postura in sede ONU che potesse lanciare un concomitante messaggio tanto in direzione delle Russia quanto degli Stati Uniti. Posizione, tuttavia, che non ha risparmiato critiche al paese, così come all’Eritrea, che è stata invece tra i soli cinque paesi al mondo a votare contro la risoluzione.
Il discorso del primo ministro Abiy Ahmed ha spesso fatto riferimenti generici potenzialmente riferibili tanto al conflitto interno quanto a quello ucraino, richiamando alla necessità del dialogo e della moderazione.
Solo al termine del proprio intervento, il primo ministro ha apertamente menzionato il conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina sostenendo come l’Etiopia segua con attenzione l’evoluzione della crisi, invitando le parti ad “esplorare i molti possibili percorsi per raggiungere una soluzione”.
Non una condanna dell’attacco russo, quindi, ma al tempo stesso nemmeno un deciso sostegno all’azione di Mosca, attraverso l’impiego di una formula narrativa generica largamente imperniata sulla necessità del dialogo e della ricerca di una soluzione.
Il discorso del primo ministro, caratterizzato da toni conciliatori e i frequenti riferimenti alla crisi interna e alle sue drammatiche conseguenze, è stato interpretato da molti come un segnale di miglioramento nel processo di riconciliazione nazionale e in quel dialogo sotterraneo che secondo molti sarebbe in corso tra il governo e il TPLF nella ricerca di una soluzione alla gravissima crisi politica e militare.
Un positivo sviluppo si segnala invece nell’ambito della crisi di frontiera tra Etiopia e Sudan per la questione connessa al controllo dell’area dell’al-Fashaga, oggetto di scontri e minacce tra i due paesi nel corso degli ultimi mesi, e quella connessa alla messa a regime della diga del GERD.
Per quanto concerne la questione dell’area dell’al-Fashaga, sebbene gli incontri siano coperti dalla massima discrezione, sembrerebbe che l’Etiopia abbia accettato di riconoscere la sovranità territoriale sudanese sull’area, mentre il Sudan avrebbe concesso agli agricoltori etiopici di continuare buona parte delle loro attività, versando tributi tanto all’erario sudanese quanto a quello dell’Etiopia.
Parimenti positivo, almeno in apparenza, il dialogo relativo alla questione della diga del GERD. Sebbene il Sudan continui a mantenere una postura moderatamente critica verso l’Etiopia, assecondando in tal modo le richieste dell’Egitto, Khartoum e Addis Abeba sembrerebbero aver trovato un accordo tanto sulla fornitura di energia elettrica quanto sulla regolazione dei flussi idrici nella stagione delle piogge, quando solitamente il Sudan meridionale viene interessato da devastanti alluvioni.