La crisi politica Sudanese perdura nell’incessante confronto tra le organizzazioni della protesta popolare e le autorità di governo della giunta militare, attraverso l’organizzazione di manifestazioni popolari che il governo cerca di reprimere limitando l’impiego dalla violenza, nella consapevolezza del rischio di una ulteriore e più grave escalation.

Il 7 marzo si è tenuta una nuova imponente manifestazione a Khartoum e nelle principali città del paese, seguendo il calendario delle proteste che prevede la discesa nelle strade ogni lunedì, mentre l’8 marzo, nel corso di una cerimonia funebre, le forze di polizia sudanesi hanno arrestato Babiker Faisal, politico molto noto nel paese per aver preso parte al comitato di indagine per l’individuazione dei beni sottratti dall’ex regime di Omar al-Bashir, alimentando ulteriormente la dimensione della protesta.

Al tempo stesso, i vertici della giunta militare appaiono sempre più polarizzati intorno ad un dualismo sorto tra il presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, il generale Abdel Fattah al-Burhan, e il vice presidente, generale Mohammad Hamdan Dagalo, espressione di un contrasto di lungo periodo tra le forze armate regolari e le milizie costituite in passato dall’ex presidente Omar el-Bashir per la gestione del conflitto nel Sud Sudan e nel Darfur.

Il paese appare in tal modo paralizzato in ogni sua concreta e reale capacità di gestione dell’economia e della riconciliazione nazionale, mettendo a rischio anche il difficile equilibrio raggiunto con le diverse componenti delle opposizioni politiche e militari, che hanno in larga misura accettato il compromesso di una collaborazione con il governo nella conferenza di Juba.

Non meno complessa la situazione sul fronte della protesta popolare, dove alla compattezza dell’opposizione alla giunta di militare di governo si contrappone tuttavia una molteplicità di iniziative e organizzazioni che stentano a definire una sintesi unitaria nel merito di una piattaforma politica. A fronte di una evidente capacità di mobilitazione della società civile nell’ambito di continue manifestazioni di protesta, quindi, è mancata allo stesso tempo una altrettanto efficace capacità di coesione sul piano della proposta politica, rischiando di vanificare gli sforzi della protesta in un pericoloso clima di equilibrio con le autorità militari, che rischia costantemente di sfociare in violenza aperta.

Si guarda con crescente interesse, quindi, all’annuncio della “Carta per l’Affermazione dell’Autorità Popolare”, definita alla fine dello scorso mese di febbraio da alcuni dei movimenti della protesta sudanese, coordinati dal comitato per la resistenza guidato da Zuhair Al-Dali, che, per la prima volta, hanno inteso definite una sorta di road map per il pratico ritorno di una guida politica civile del paese.

Il documento della Carta mantiene saldi i valori della protesta, riaffermando la volontà di non voler accettare alcuna forma di compromesso con le autorità militari di governo di Khartoum, chiede la cancellazione della dichiarazione costituzionale dell’agosto del 2019 e propone la definizione di una nuova carta costituzionale.

Per quanto di innegabile interesse, tuttavia, la proposta della Carta ha sollevato numerose incognite nel panorama politico sudanese, dove sussistono fondati dubbi in merito alla coesione dei promotori del documento, così come sulla loro effettiva capacità di promuovere un documento condiviso.

La Carta, poi, è strutturata su 12 punti, prevalentemente incentrati sull’opposizione a qualsiasi formula di compromesso con le autorità militari, ma anche sul rifiuto esplicito ad un processo di transizione coordinato dalle Nazioni Unite, considerate in larga misura come sostenitrici della necessità di favorire una transizione che non ignori le istanze dell’apparato militare. Elementi che, secondo molti, impediscono ab origine la possibilità di un’effettiva capacità di riuscita del progetto, alimentando al contrario una radicalizzazione soprattutto con una parte dell’apparato militare – quello delle milizie del generale Dagalo in particolar modo – cui non viene offerta altra alternativa se non quella dell’abdicazione dalle proprie prerogative politiche ed economiche.

I promotori della Carta, inoltre, propongono l’avvio di un programma di transizione biennale guidato dai comitati rivoluzionari, mediante la nomina di un primo ministro ad interim incaricato di guidare il processo transizionale verso la definizione di una riforma costituzionale, libere elezioni e la revisione degli accordi di pace di Juba, per la definizione di una nuova piattaforma di riconciliazione nazionale gestita unicamente dalle parti sudanesi.

Resta centrale nella Carta, quanto problematico, il progetto di riforma della sicurezza nazionale, imperniato sullo scioglimento delle milizie e sul rafforzamento di un esercito nazionale sudanese sottoposto al potere legislativo e a cui venga sottratto il controllo degli ingenti interessi economici che oggi ne costituiscono la principale sorgente di influenza.

Non meno ambizioso il progetto di riforma dell’economia, imperniato su una ridefinizione delle prerogative del ministero delle Finanze, cui sarebbe affidata la gestione dell’imprenditoria pubblica sudanese al fine di impedire la gestione periferica degli interessi economici nazionali. Una formula, anche in questo caso, esplicitamente riferita al ruolo e all’ingerenza dell’apparato militare nel controllo e nella gestione di una consistente parte dell’economia nazionale.

Un elemento di particolare importanza della Carta – e di grande sensibilità sul piano della politica internazionale – è invece quello connesso alla definizione di una nuova politica estera e di sicurezza del paese, che, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbe essere costruita sull’assunzione di una posizione di neutralità del Sudan rispetto alle principali dinamiche di crisi regionale (Etiopia e Yemen in particolar modo), sulla sospensione del processo di normalizzazione delle relazioni con Israele e sulla definizione di una quadro di priorità dell’interesse nazionale stabilito nell’ambito di un rinnovato contesto politico espresso attraverso il voto popolare.

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