Diverse le novità che è possibile intravedere allo scoccare del 15° anniversario dalla nascita di AMISOM. La prima è relativa alla catena di comando: la guida della struttura militare era sinora assegnata a rotazione tra i diversi contingenti. In ATMIS è previsto invece che quello più numeroso – oggi l’Uganda – esprima la guida della Missione. Previsto anche un allargamento dei Paesi contributori che oltre Kenya, Etiopia, Burundi e Gibuti potrebbero includere anche Ruanda, Egitto e Tunisia contributori storici di proprie unità militari alle Missioni africane.
Si auspica dunque una maggiore partecipazione continentale alla ripresa della Somalia. Si punta inoltre a ridurre i sobbalzi nei passaggi di consegna per un’azione militare più lineare. Soprattutto, si tenta di superare un punto critico, ovvero le accuse di parzialità rivolte a talune delle componenti della Missione – prima all’Etiopia, poi soprattutto al Kenya, Paesi confinanti ritenuti dalle Autorità somale soprattutto interessati a orientare la politica interna più che a debellare le minacce di sicurezza.
Ogni 6 mesi, ATMIS dovrà inoltre chiedere l’approvazione del Governo somalo, dell’ONU e dell’UE per continuare le proprie operazioni, novità che è funzione anche della nuova struttura di finanziamento rispetto ad AMISOM. Quest’ultima ha lavorato soprattutto grazie a fondi statunitensi ed europei; ora il finanziamento dovrebbe poggiarsi su fondi delle Nazioni Unite integrati da contributi internazionali.
Anche se le strutture di ATMIS ad ora ricalcano pressoché fedelmente quelle di AMISOM, sin dal nome è stato infine stabilito la Missione avrà un carattere nuovo e temporaneo. Il passaggio di testimone dovrebbe presto rendere possibile infatti la definitiva attribuzione alle Forze di sicurezza somale dei pieni poteri in tema di mantenimento dell’ordine pubblico e di lotta alla violenza terrorista. Il raggiungimento di questo obiettivo è posto alla fine del 2023: data ambiziosa, data l’impreparazione attuale e il perdurare di incertezze politiche.
Si tenta anche di non disperdere i risultati sin qui ottenuti: la maggiore stabilità del Paese è un dato acquisito se paragonata alla guerra civile di metà anni Duemila. Al Shabaab è stato espulso dalla capitale e dalle città maggiori dove gli edifici governativi e gli snodi infrastrutturali sono ora più saldamente nella disponibilità delle autorità federali e regionali; il nugolo di milizie terroriste è ora più spesso uno strumento che gli attori locali manovrano per sopravanzare altri ritenuti loro rivali.
Il termine del processo elettorale è ancora atteso al 15 marzo, poi le elezioni presidenziali dovrebbero dare un volto nuovo alle istituzioni nazionali. Si assiste perciò alle prime mosse delle presidenziali, con i primi annunci di possibili candidature come quella di Ali Sharmarke, già ambasciatore negli Stati Uniti e Primo Ministro tra il 2009-2011 e il 2014-2016 oltre quella nota dell’ex Premier Khaire.
La congiuntura apre anche a maggiori presenze internazionali, tra cui spicca la possibilità che militari statunitensi tornino a condurre operazioni speciali in Somalia dopo il ritiro ordinato da Trump e il ridispiegamento a Gibuti e in Kenya. È un indizio di una potenziale fase nuova, mentre azioni violente siano avvenute a Mogadiscio nel mercato Bakara e abbiano punteggiato il Basso Giuba.