Continua la tregua di fatto in Etiopia tra il governo federale e quello dello stato regionale del Tigrai, facendo registrare una relativa calma lungo l’intero confine con lo stato dell’Amhara e dell’Oromia.

Si susseguono voci di un negoziato informale e segreto tra il governo federale e le autorità tigrine, sebbene questo venga ufficialmente negato dal primo ministro Abiy Ahmed, che ribadisce come il TPLF resti un’organizzazione terroristica con la quale il governo non intende trattare.

I combattimenti continuano al contrario lungo il confine tra il Tigrai e l’Afar, dove le forze del TDF sono penetrate in profondità nel tentativo di assicurarsi il controllo delle principali arterie stradali funzionali alla gestione del flusso di aiuti umanitari diretti verso Macallè.

Il governo federale tace sull’evoluzione di questo nuovo fronte di conflitto, e non ha fornito alcun supporto militare alle forze speciali dell’Afar impegnate nel tentativo di contenere l’avanzata delle forze tigrine. Più volte il governo regionale di Asayta ha lamentato la carenza del sostegno federale, tanto sul piano terrestre quanto in termini di supporto aereo, sostenendo che la situazione umanitaria nelle aree di confine abbia raggiunto livelli ormai insostenibili.

Il premier Abiy Ahmed sembra nutrire inoltre crescenti dubbi anche nel merito del rapporto con l’Eritrea. Asmara avrebbe infatti avuto un ruolo determinante nel convincere il premier a scatenare la guerra contro il Tigrai, contribuendo alla sconfitta militare e soprattutto nel perpetrare le violenze sulla popolazione civile che hanno determinato la condanna internazionale, le sanzioni e l’isolamento dei due paesi. Una situazione dalla quale Abiy Ahmed vorrebbe presumibilmente districarsi attraverso una separazione dei propri interessi da quelli eritrei, ma che si presenta come una scelta estremamente complessa e difficile. L’Eritrea controlla infatti ancora ampie zone del Tigrai settentrionale, e la conflittualità con i tigrini è presumibilmente solo temporaneamente sopita.

Al tempo stesso è alquanto complessa anche la gestione delle relazioni con le autorità dello stato regionale dell’Amhara, che occupano militarmente l’intero Tigrai occidentale e che non intendono accettare alcuna formula di compromesso per la sua restituzione alle autorità di Macallè. Un’intransigenza che si riverbera sulla politica interna amhara, rendendo sempre più delicati gli equilibri con Addis Abeba.

Non meno instabile, invece, si presenta la situazione in Oromia – del quale il premier è originario – dove alla presenza delle milizie armate dell’OLA si aggiunge il diffuso risentimento della locale società verso il governo federale, ritenuto responsabile di non aver promosso le istanze politiche degli oromo, che rappresentano il gruppo etnico di maggiore consistenza e che da decenni lamenta la marginalizzazione ad opera dei tigrini e degli amhara.

Il primo ministro Abiy Ahmed, nel tentativo di promuovere un dialogo di riconciliazione nazionale, ha dato avvio formalmente ad alcune iniziative finalizzate alla ricostituzione di un programma politico, economico e sociale a carattere nazionale, senza tuttavia ottenere allo stato attuale alcun tangibile successo.

Il limite di queste iniziative è rappresentato in larga misura dall’accentramento del potere nelle mani del Partito della Prosperità, di cui il premier è fondatore e presidente, che continua ad esercitare un capillare controllo del sistema politico ed economico, venendo percepito dai diversi gruppi etnici etiopici – e non a torto – come una sorta di reincarnazione del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiopico, che, a guida tigrina, ha guidato il paese sino al 2019.

A rafforzare questa percezione accentratrice ed egemonica del Partito della Prosperità ha contribuito ad esempio lo scorso 15 marzo la nomina del generale Bacha Dele al rango di ambasciatore in Kenya. Sostituendo il diplomatico di carriera Meles Alem-Tekea, che gode di una solida reputazione e proviene dai ranghi della diplomazia, la nomina del generale Bacha Dele è stata considerata da molti come una ricompensa per il suo zelo nella condotta del pur fallimentare conflitto in Tigrai, ma anche come un monito nei confronti del Kenya, che si sono schierati sin dall’inizio del conflitto sul fronte della condanna delle violenze e della ricerca del dialogo.

Al tempo stesso, tuttavia, le autorità federali cercano di lanciare segnali conciliatori verso una parte delle forze politiche di opposizione al governo, promuovendo piattaforme di dialogo comuni – dagli scarsi risultati, almeno al momento – e decretando amnistie selettive nei confronti di alcuni esponenti tanto dell’opposizione tigrina quanto di quella degli altri gruppi etnici.

In questa direzione deve essere letta la decisione del governo federale dell’Etiopia di annunciare la revoca degli arresti domiciliari per il presidente del Fronte di Liberazione Oromo (OLF), Dawud Ibsa, il cui arresto era stato ordinato nel maggio del 2021 con l’accusa di aver complottato con il braccio armato del partito, l’Esercito di Liberazione Oromo (OLA), inserito nelle liste delle organizzazioni terroristiche.

La richiesta di revoca era stata formulata la scorsa settimana dal comitato elettorale etiopico, con una lettera indirizzata alla Commissione della Polizia Federale e ai servizi di intelligence (il National Information and Security Service – NISS), nella quale si denunciava l’illegalità della detenzione di Dawud Ibsa.

Sono ancora numerosi, tuttavia, i prigionieri politici arrestati all’indomani dello scoppio del conflitto in Tigrai nel mese di novembre del 2020 e ancora detenuti senza incriminazioni specifiche. Lo ha affermato lo stesso direttore della Commissione per i diritti umani del governo federale, Daniel Bekele, secondo il quale alcuni di questi sarebbero stati trasferiti nello stato regionale dell’Afar.

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